DARE CERTEZZA ALLE DICHIARAZIONI DEI PENTITI
"Un imputato non può essere condannato per nessun reato sulla base della deposizione di un collaboratore di giustizia, che non sia sostenuta da una prova che colleghi l'imputato con la consumazione di quel reato": non si tratta di una nuova proposta di modifica dell'articolo 192 del codice di procedura penale, quello che stabilisce che tipo di riscontri deve avere la parola del "pentito"; è una legge già in vigore nello Stato di New York, il § 60.22 delle "rules of evidence". Nel medesimo Stato chi intende collaborare con la giustizia sottoscrive un contratto che lo impegna a dire quello di cui è a conoscenza "per intero, subito e in conformità al vero": se ciò non accade, non solo viene revocata qualsiasi protezione, ma si decade da tutti i benefici e si rischia l'ulteriore incriminazione di spergiuro. Dunque, in un contesto noto per il particolare rigore nella persecuzione dei reati, che ha condotto anche a risultati importanti, garantendo standard di sicurezza certamente superiori al passato, il "pentito" è trattato come merita: una fonte importante di informazioni, ma non la bocca della verità, da cui far dipendere la condanna o l'assoluzione di un imputato.
In Italia non è così. Si continua a vivere una schizofrenia tipica della nostra legislazione penale: fino al 1991-92 il "pentito" non aveva un riconoscimento giuridico autonomo; chi decideva di collaborare lo faceva a proprio rischio e pericolo, non aveva la garanzia di una tutela mirata da parte dello Stato, e non godeva di benefici specifici, al più poteva fruire delle attenuanti generiche: ben poca cosa quale incentivo a percorrere una strada difficile. Fino a quegli anni, per disattenzione, per pavidità, per scarsa sensibilità, ci si è privati dell'essenziale contributo conoscitivo proveniente dall'interno delle organizzazioni criminali; con i risultati che tutti ricorderanno: ostacoli nelle indagini, impossibilità di individuare i luoghi di rifugio dei latitanti, livelli di complicità più elevati senza rischio di coinvolgimento. Nel 1991, e soprattutto nel 1992, a seguito delle stragi di Capaci e di via D'Amelio, il quadro cambia: ma cambia male, perché si passa da un estremo all'altro, dall'esilio cui era stato confinato il "pentito" al suo rapido rientro in patria in una posizione centrale, dall'assenza di sconti di pena a una gara scandalosa da saldi di fine stagione, in virtù della quale gli autori di decine di omicidi sono andati prestissimo in libertà e si sono arricchiti altrettanto rapidamente a spese del contribuente; può darsi che un periodo sperimentale, con inevitabile sbandamento operativo, fosse necessario. Il problema è che la fase della sperimentazione è passata, da tempo sono stati fatti i bilanci, e la situazione è oggettivamente inaccettabile.
Oggi infatti, in base alla combinazione fra il testo dell'art.513 del codice di procedura penale, così come modificato dalla Corte Costituzionale, e il testo dell'art.192, del quale la sinistra impedisce la modifica, accade che un "pentito" rende le sue dichiarazioni al p.m., e poi in dibattimento si avvale della facoltà di non rispondere; in teoria, ma spesso anche in pratica, se un altro "pentito" si comporta alla stessa maniera la prova può ritenersi formata: senza alcun vaglio dibattimentale e senza riscontri ulteriori, quindi senza escludere versioni concordate fra più "pentiti". Vige l'equazione "pentito + pentito - dibattimento = prova"; questo fa sì che alcuni pubblici ministeri (sottolineo: alcuni, non tutti, e neanche la maggior parte) trovano più comodo raccogliere le dichiarazioni dei collaboratori e metterle in connessione l'una con l'altra piuttosto che fare le indagini sui dati obiettivi; con una possibile eterogenesi dei fini: in certi casi i giudici si sono accontentati, e hanno condannato; in altri, pur in presenza di accuse plurime, ma in assenza di riscontri ancorati alla realtà, hanno preferito assolvere (la vicenda di Andreotti è emblematica al riguardo).
Credo che sia folle disconosce il contributo processuale delle collaborazioni; ma credo che egualmente non sia saggio impedire una maggiore certezza nella ricostruzione dei fatti oggetto del giudizio: è necessario convincere l’imputato che intende accusare che la sua deposizione deve essere la più circostanziata e analitica possibile, che non si può limitare al sentito dire, che non deve confidare nell’assonanza con le dichiarazioni di altri "pentiti", che, in definitiva, il valore del suo "dire" (con tutti gli effetti in termini di benefici e di protezione) sarà direttamente proporzionale alla quantità di dati oggettivi che offrirà all’attenzione del giudicante, e dunque alla possibilità di rintracciare riscontri esterni. Tutto questo va pro o contro la mafia? La delinquenza organizzata è più preoccupata di un accertamento giudiziario sicuro e inattaccabile, o ha più interesse a una dilatazione del "libero convincimento", tale da far rischiare che la sentenza sia travolta in appello o in cassazione, o non faccia pervenire neanche a una condanna in primo grado? E ancora, non è il caso di sottrarre alla criminalità la possibilità di concordare versioni sovrapponibili tra falsi "pentiti" per screditare, come è accaduto e come accade, il poliziotto, o il magistrato, o il politico sgraditi?
Se fino a questo momento la riforma della disciplina dei collaboratori non è andata in porto, è perché ci si è scontrati su questo nodo, politico prima ancora che tecnico. Il disegno di legge presentato nel febbraio 1997 dagli allora ministri Napolitano e Flick, del quale si è ripreso a discutere nei giorni scorsi in Commissione Giustizia al Senato, contiene aspetti in larga parte condivisibili; manca tuttavia il chiodo al quale appendere il quadro dell'intera disciplina da rinnovare: quello che considera necessario per formare la prova che il riscontro non consista esclusivamente nella deposizione di un altro "pentito". Finora le norme volute dal governo non sono passate per le divisioni interne alla maggioranza: il Ppi condivideva l'impostazione del Polo circa l'inserimento nella riforma anche del nuovo testo dell'art.192. Dopo la sentenza di Perugia i popolari sembrano essere paghi e non pongono più ostacoli al resto della maggioranza: peccato che il problema riguardi non soltanto il sen. Andreotti, bensì non l'intero sistema giudiziario italiano.
Alfredo Mantovano