ALFREDO MANTOVANO
Deputato al Parlamento italiano
RESPONSABILE DI A.N. PER I PROBLEMI DELLO
STATO

 

DISEGNO DI LEGGE A.C. 7123 PRESENTATO DAL MINISTRO DELLA GIUSTIZIA DI CONCERTO CON ALTRI

Delega al Governo per la riforma del diritto societario

(Abbinata: p.d.l. Veltroni e altri, a.c. 6751)

 

* RELAZIONE *
 
 

1. La discussione che è iniziata il 19 luglio, e che prosegue oggi, riguarda un impegnativo e complesso progetto di modifica del diritto societario, che si articola in un adattamento del regime di istituti che hanno decenni di vita alle spalle a un contesto sociale, economico e finanziario completamente mutato rispetto al momento in cui quegli istituti furono organicamente disciplinati, con il codice civile del 1942. Tento di seguire l'approccio interdisciplinare proposto nella precedente seduta dall'on. Mauro Agostini, tenendo conto contestualmente delle esigenze di certezza proprie di una società fondata sul diritto e delle esigenze di semplificazione e di elasticità che provengono dal mondo dell'economia. La scomparsa di strumenti classici di controllo dell'economia, dalla moneta alla selezione del credito, e la presenza di forti vincoli derivanti dal patto di stabilità sulla manovra fiscale, fanno sì che proprio sul rapporto tra la potenzialità espansiva di una determinata struttura economica e il diritto societario si giochi la partita delle politiche di "governo" dell'economia. Come è stato osservato (F. Belli e F. Mazzini), "la capacità competitiva di un sistema economico dipende anche dal grado di efficienza delle regole che lo governano". E' quasi banale osservare che in un sistema sempre più globalizzato l'incertezza o la difficoltà nella identificazione di regole, se pur poche, certe e adeguate alla realtà conduce e con facilità a un mercato senza regole.

Il disegno di legge d'iniziativa del Governo che è oggetto del nostro esame consta di 11 articoli, il primo dei quali illustra i contenuti generali della delega, i tempi di esercizio della stessa, l'espressione dei pareri da parte delle competenti Commissioni parlamentari, la possibilità di emanare decreti correttivi entro un anno dall'entrata in vigore dei decreti legislativi. Gli articoli dal 2 al 9 dettano i nuovi principi regolatori delle società. Gli articoli 10 e 11 individuano i criteri per disegnare il sistema sanzionatorio e la competenza a dirimere le controversie relative al settore.

I tempi previsti per la relazione, poiché fanno cadere quest'ultima a ridosso di un calendario d'Aula particolarmente gravoso, impediscono l'approfondimento di tutti gli aspetti del disegno di legge, ciascuno dei quali meriterebbe una disamina adeguata, ma esigerebbe un tempo corrispondente, del quale queste Commissioni non dispongono. Per questo preferisco concentrare l'attenzione, sia pure per cenni, sugli ultimi due articoli, che non sono stati trattati nella relazione dell'on. Agostini, mentre riservo al seguito dei lavori, e in particolare alla discussione in Commissione, di formulare le osservazioni più analitiche riguardanti i profili civilistici della riforma, che ovviamente hanno rilievo sulla disciplina sanzionatoria. Questa scelta mi consente di rinviare l'esame del testo della p.d.l. Veltroni e altri, che non contiene una parte dedicata al diritto penale societario, mentre altre iniziative legislative aventi quest'oggetto saranno prese in considerazione più avanti, allorché saranno disponibili.

2. Nell'illustrazione del sistema che viene proposto ritengo di dover rimarcare l'ossequio ai principi generali che sono espressamente richiamati nella relazione che accompagna il d.d.l.:

  • la necessità che la delega sia la più circostanziata e precisa possibile. Il principio di tassatività nella formulazione delle fattispecie penali non è messo in crisi dal conferimento della delega, dal momento che la fonte normativa che viene in considerazione è la disposizione elaborata dal legislatore delegato. E tuttavia, il rispetto di quel principio esige che la disposizione delegante sia la meno generica possibile. Quando, per fare un esempio sul quale tornerò fra breve, a proposito della "falsità in bilancio" l'ultimo periodo del comma 1 lettera a) n. 1 dell'articolo 10 delega l'Esecutivo a "regolare i rapporti della fattispecie con i delitti tributari in materia di dichiarazione", senza ulteriori specificazioni, ci si trova di fronte a un mandato estremamente vago, poiché non indica, e ancor di meno precisa, i criteri alla cui stregua debbano armonizzarsi la fattispecie incriminatrici delle esposizione dei dati difformi dal vero, che interessino contestualmente il fisco e le società;

  • quello che la relazione al d.d.l. chiama il "principio di sussidiarietà", in base al quale l'intervento penalistico va escluso "là dove altri rimedi appaiano sufficienti a garantire una efficace tutela del bene giuridico". Sotto questo profilo, segnalo la circostanza che il d.d.l. in realtà mantiene in vita un numero considerevole di ipotesi di reato, ne inserisce di altre originali, mentre al contrario rende più elastico il controllo su altri fronti, a cominciare dal giudizio di omologazione davanti al tribunale, che l'articolo 3 comma 2 lettera a) abolisce con riferimento all'atto costitutivo delle s.r.l.. Ricordo che, a margine del dibattito sul "progetto Mirone", prima che esso fosse trasfuso in questo d.d.l., una parte dei commentatori aveva osservato che il controllo giudiziario non solo avrebbe dovuto restare, ma anzi avrebbe dovuto rafforzarsi proprio per la maggiore autonomia riconosciuta ai soci fondatori. Uno degli spunti di discussione in Commissione potrà essere la condivisione di una scelta simile, politica prima ancora che tecnica (pur se non priva di riflessi da questo punto di vista), e verificare se il rinvio del controllo di legalità ai notai è idoneo a surrogare il controllo giudiziario, che viene eliminato. E' fonte di quotidiana difficoltà per gli operatori una sorta di panpenalismo che abbraccia tanti settori della vita economica e sociale. Non vi è soltanto l'aspetto del maggior carico sui ruoli degli inquirenti e dei giudicanti, e della qualità del lavoro che viene loro richiesto, dal momento che un processo per un illecito societario è ben più impegnativo di altri. Vi è, prima ancora, il limite di sottoporre al vaglio del giudice penale, spesso non adeguatamente attrezzato (le sezioni specializzate sono previste dall'articolo 11 esclusivamente per il contenzioso civile), questioni che un filtro di altro genere, posto più a monte, consentirebbe di limitare. Per restare alla voce "sussidiarietà", va segnalata la non infrequente sovrapposizione fra talune fattispecie proposte dal d.d.l. in discussione e ipotesi di reato già previste dal decreto legislativo 24 febbraio 1998 n. 58, il testo unico sulla finanza (TUF), sulla quale tornerò quando farò cenno alle singole disposizioni;

  • il terzo principio segnalato dalla relazione è quello "di offensività", che tende a "circoscrivere la punibilità alle sole condotte concretamente offensive dell'interesse protetto". In ossequio a questo principio, andrà verificato se formulazioni come quella che viene adoperata per descrivere l'attenuante di cui all'articolo 10 comma 1 lettera d), che fa generico riferimento a una "offesa di particolare tenuità", sia sufficiente ad adeguare l'entità delle sanzioni al disvalore del fatto concreto;

  • l'ultimo principio è quello della personalità della responsabilità. Anch'esso nel testo del d.d.l. incontra una deroga parziale - comunque il principio della personalità coincide per intero con la sola responsabilità penale - nella previsione di cui all'articolo 10 comma 1 lettera h), che propone una responsabilità di natura amministrativa per le società, nell'ipotesi di reati commessi nell'interesse dal c.d. management, ovvero da soggetti sottoposti alla direzione o alla sorveglianza del management.

Va rilevato che questi principi sono stati menzionati nella Relazione, e da essa indicati espressamente come "linee guida" della riforma, ma non sono stati inseriti nel testo del d.d.l., come invece è opportuno fare, anche al fine di armonizzare il disegno riformatore.

3. La relazione individua dei "poli tematici" di prevalente interesse, coincidenti con i beni giuridici che meritano tutela, e li elenca: veridicità e compiutezza dell'informazione societaria, sia verso differenti categorie di destinatari, a cominciare dai soci dai creditori, sia verso le agenzie preposte al controllo del settore; effettività e integrità del capitale sociale, e conservazione del relativo patrimonio; funzionamento degli organi sociali; affidabilità dei mercati finanziari. Come viene tradotto dalle nuove quest'interesse?.

Cambia anzitutto la disposizione sul falso in bilancio, di cui all'articolo 2621 del codice civile. Nella delega il novero dei soggetti attivi non comprende più i promotori e i soci fondatori, mentre dall'area delle condotte illecite viene espunto ciò che attiene alla costituzione della società: nella relazione si spiega che si tratta di ipotesi marginali, assenti nella realtà. L'avverbio "fraudolentemente" viene sostituito dall'avverbio "intenzionalmente", collegato col "fine di conseguire un ingiusto profitto". Rappresenta un consolidato orientamento dottrinale e giurisprudenziale che con "fraudolentemente" il legislatore abbia inteso aggiungere alla singolare falsità ideologica in scrittura privata che costituisce il falso in bilancio un elemento ulteriore rispetto alla semplice editio falsi e alla coscienza e volontà della immutatio veri: elementi richiesti per configurare i delitti di falso. Il di più dell'articolo 2621 cod. civ. consiste nella volontà di ingannare i soci o i terzi: questo speciale falso ideologico assurge alla categoria di delitto soltanto quando ha una potenzialità ingannatrice, della quale l'autore sia consapevole. Occorre, unitamente alla consapevolezza dell'alterazione del bilancio, delle relazioni e delle comunicazioni sociali, comune a tutti i delitti di falsità in atto pubblico, la volontà del soggetto di ingannare per porre in pericolo o ledere l'interesse alla prova che scaturisce dall'atto ideologicamente falso. Se dunque non ogni inesattezza contabile realizza il falso in bilancio, proprio per la necessità del quid pluris cui si è fatto cenno, può concludersi per l'esistenza del reato ogni qual volta non vi sia significativa corrispondenza fra il bilancio e la realtà economica dell'impresa.

Poiché nella relazione non vi è traccia della ragione del mutamento - "intenzionalmente" al posto di "fraudolentemente" -, se l'immutatio veri è comunque finalizzata al conseguimento del profitto ingiusto, ci si può chiedere se la modifica non abbia il senso di una decisa opzione per il dolo specifico: anche su questo aspetto è opportuno l'approfondimento della Commissione. A differenza di quanto esige l'articolo 2621 cod. civ., che parla di "fatti non rispondenti al vero", la falsità in bilancio del d.d.l. in esame parla di "false informazioni": i fatti sono qualcosa di differente dalle informazioni; il fatto è un evento che le informazioni contribuiscono a far conoscere, o a far approfondire. Nella relazione si legge che "il termine 'informazioni' (…) va sempre riferito a fatti materiali, ancorché oggetto di valutazioni, esulando di necessità dall'ambito della fattispecie le previsioni, i pronostici, le enunciazioni di progetti". E' una esegesi praeter dictum: è più opportuno evitare imprecisioni e, dal momento che ci si riferisce a "fatti materiali", adoperare espressamente questo termine.

4. L'ultimo periodo del comma 1 lettera a) n. 1 dell'articolo 10 delega l'Esecutivo a "regolare i rapporti della fattispecie con i delitti tributari in materia di dichiarazione", senza ulteriori specificazioni. Con il che nulla si dice sui criteri per la delimitazione delle aree di intervento delle differenti fattispecie, se delimitazione si intende operare: la delega, più che generica, è vuota. Com'è noto, una parte della giurisprudenza ha escluso che il fine di frodare il fisco realizzi l'elemento psicologico del falso in bilancio, essendo stato posto l'articolo 2621 cod. civ. nell'interesse della società, del socio e dei terzi, ma non del fisco; con la conseguenza che l'eventuale insincerità del bilancio compiuta a fini fiscali realizza i reati finanziari. Secondo quest'orientamento, nel caso di falsità in bilancio a fini fiscali si realizza un concorso apparente di norme, da risolvere in base al principio di specialità: la norma speciale, che è quella prevista nel testo unico sulle imposte, prevale sulla norma generale del codice civile. E ciò anche perché la finalità della disposizione del codice civile non è quella di tutelare le ragioni del fisco, che possiede altri strumenti per conoscere la verità e sottoporre il reddito al tributo. La tesi alternativa sostiene che l'evasore di tributi fraudolento di rende responsabile di entrambi i delitti, poiché l'Amministrazione finanziaria deve ritenersi inclusa fra i soggetti passivi del reato di cui all'articolo 2621 cod. civ.

La recente riforma del sistema penale tributario, varata col decreto legislativo 10 marzo 2000 n. 74, non ha risolto la questione. Gli articoli 2 e 3 del decreto prendono in considerazione la condotta di chi indica elementi passivi fittizi nelle dichiarazioni annuali delle imposte servendosi di documenti relativi a operazioni inesistenti ovvero indica con gli stessi mezzi fraudolenti attivi inferiori a quelli effettivi. Nulla viene precisato in ordine ai rapporti con i reati societari: le incertezze giurisprudenziali finora riscontrate dovrebbero indurre il Parlamento a operare una scelta, che non si comprende quale è, in base al breve periodo dedicato alla questione nel d.d.l..

Il n. 2 della lettera a) del comma 1 dell'articolo 10 introduce in forma autonoma il delitto di "falso in prospetto", consistente nella condotta di chi, nei prospetti richiesti ai fini della sollecitazione all'investimento o dell'ammissione alla quotazione dei mercati regolamentati, ovvero nei documenti da pubblicare in occasione della Opa o delle Ops, espone intenzionalmente a fine di profitto informazioni false. Questa disposizione va coordinata con quanto prevede l'art. 174 del TUF, che punisce chi espone false informazioni sulle comunicazioni alla Consob, relativamente, fra gli altri, agli obblighi degli offerenti e alle Opa. Problemi di coordinamento, vista la quasi completa sovrapposizione delle relative disposizioni, derivano ancora di più dal confronto fra quanto prevede il n. 3 della lettera a) del comma 1 dell'articolo 10 e l'art. 175 del TUF, relativamente all'attestazione, da parte degli amministratori e dei soci responsabili della revisione, del falso o l'esposizione di fatti non rispondenti al vero o l'occultamento di fatti concernenti le condizioni economiche della società nell'ambito delle relazioni e delle comunicazioni relative alla società assoggettata a revisione: è necessario decidere quale delle due norme deve sopravvivere, per evitare confusioni.

Qualche modifica alla disciplina in vigore si riscontra con riferimento all'impedito controllo - n. 4 della lettera a) del comma 1 dell'articolo 10 -, che prende in considerazione anche l'occultamento di documenti o altri idonei artifici, realizzato dagli amministratori per impedire o ostacolare il controllo o la revisione legalmente attribuite ai soci, ad altri organi sociali o alle società di revisione; e con riferimento alla omessa esecuzione di denunce, comunicazioni o depositi, modificata rispetto all'attuale disposizione di cui all'articolo 2626 cod. civ. in relazione all'istituzione del registro delle imprese (n. 5). Le norme poste a tutela della effettività e della integrità del capitale sociale riguardano in particolare:

  • la formazione fittizia del capitale (n. 6): costituiscono illeciti penali l'attribuzione di azioni o quote sociali per somma inferiore al loro valore nominale, la sottoscrizione reciproca di azioni o quote, la rilevante sopravvalutazione dei conferimenti di beni in natura o di crediti, ovvero del patrimonio della società nel caso della trasformazione. Non vi è una differenza sostanziale tra queste fattispecie e la normativa vigente, se si eccettuano l'abolizione della multa per tutti i reati e la riduzione della pena detentiva per l'esagerata valutazione dei conferimenti;

  • l'indebita restituzione dei conferimenti (n. 7): si tratta di una ipotesi di reato sostanzialmente coincidente con quella di cui all'articolo 2623 n. 2 cod.civ., che punisce la restituzione ai soci dei conferimenti o la loro liberazione dall'obbligo di eseguirli, al di fuori del caso della riduzione del capitale sociale;

  • l'illegale ripartizione degli utili e delle riserve (n. 8): sono puniti gli amministratori che ripartiscono utili o acconti sugli utili non effettivamente conseguiti o destinati per legge a riserva, ovvero ripartiscono riserve non distribuibili per legge; si tratta nella sostanza della riproposizione dei reati di cui all'articolo 2621 nn. 2 e 3. La differenza rispetto alla disciplina vigente sta nel fatto che non sussiste il reato quando ci si imbatte in violazioni di carattere meramente formale;

  • le illecite operazioni sulle azioni o quote sociali o della società controllante (n. 9): è una disposizione che, per il suo contenuto, va coordinata con quello che stabilisce il n. 6. Sono infatti puniti gli amministratori che acquistano o sottoscrivono azioni o quote sociali o della società controllante, provocando una lesione dell'integrità del capitale sociale e delle riserve non distribuibili per legge.

5. Passo in rassegna molto sintetica le altre disposizioni incriminatrici:

  • operazioni in pregiudizio dei creditori (n. 10): la differenza rispetto alla disposizione di cui all'articolo 2623 n. 1 cod.civ. sta nella concretezza del pregiudizio per i creditori, che va valutato di volta in volta nel caso specifico all'esame del giudice;

  • indebita ripartizione dei beni sociali da parte dei liquidatori (n. 11), per la quale vale l'identico discorso;

  • infedeltà patrimoniale (n. 12), che chiama in causa la categoria del conflitto di interessi quale situazione degli amministratori, dei direttori generali e dei liquidatori i quali compiano atti di disposizione dei beni sociali per procurare un profitto ingiusto, con danno per la società. Vi è un problema di coordinamento con gli articoli 167 e 168 del TUF, che puniscono la gestione infedele, circoscrivendo l'ipotesi di reato agli atti di infedeltà consumati in conflitto di interessi nell'ambito dei rapporti tra intermediari finanziari e clientela;

  • corruzione (n. 13). Si tratta di una novità, che traspone a difesa del patrimonio sociale figure di reato finora proprie del pubblico ufficiale: viene punita la condotta di amministratori, direttori generali, sindaci, liquidatori e responsabili della revisione che compiono o omettono atti in violazione degli obblighi del loro ufficio commessi a seguito della dazione o della promessa di utilità, con conseguente pericolo di nocumento per la società. Come tutte le novità, anche questa apre il terreno a non poche problematiche;

  • indebita influenza sull'assemblea (n. 14). Viene estesa l'area dei soggetti che possono esercitarla, andando oltre la figura degli amministratori, così come è attualmente previsto dall'art. 2630 co. 1 n. 3 cod. civ., mentre viene circoscritto l'ambito applicativo, poiché l'azione, oltre a dover essere realizzata con atti simulati o con frode, deve anche essere finalizzata a un profitto ingiusto;

  • omessa convocazione dell'assemblea (n. 15), nei casi in cui quest'obbligo derivi dalla legge o dallo statuto: la condotta è sanzionata sul piano amministrativo, ma non penale;

  • aggiotaggio (n. 16). Anche per questa fattispecie vi è una esigenza di coordinamento con il TUF (articolo 181) e con il Testo unico bancario (articolo 138).

Fra le disposizioni della delega, segnalo ancora l'attenuante di cui alla lettera d) del comma 1 dell'articolo 10, che opera quando gli illeciti di cui alle lettere a) e b) abbiano recato una "offesa di particolare tenuità". Segnalo in proposito il mancato recepimento da parte del d.d.l. della proposta formulata dal ministero del Tesoro e dalla Banca d'Italia, secondo i quali le informazioni mendaci devono essere "significative e tali da alterare sensibilmente" la rappresentazione della situazione economica o finanziaria della società. Si tratta di quella clausola della "minima rilevanza", così definita dalla dottrina, da parametrare su base oggettiva, ovvero in proporzione al fatturato o al reddito, la cui non inclusione nel testo si basa sul timore di legalizzare prassi illegittime, con riferimento soprattutto ai grandi gruppi di imprese. Anche in questo caso è necessario operare una scelta, frutto del bilanciamento fra esigenze differenti, tra il rischio di consentire la costituzione di "fondi neri" e il rischio di incriminazioni per voci contestate di bilancio che rivestono un carattere oggettivamente marginale.

6. L'articolo 11 del d.d.l. individua una competenza giurisdizionale specializzata e deroghe al rito, in funzione della particolarità della materia costituita dalle liti societarie. Si tratta di un insieme di innovazioni profonde, destinate a incidere non marginalmente, qualora fossero approvate, sugli uffici giudiziari italiani, che sono ancora in fase di riorganizzazione dopo le riforme del giudice unico e dei tribunali metropolitani. Viene immaginato un giudice la cui competenza comprende le questioni di diritto societario, incluse le cessioni delle partecipazioni sociali e i patti parasociali; le questioni di concorrenza, di brevetti e di segni distintivi dell'impresa; le questioni regolate dal TUF e dal testo unico bancario; la materia concorsuale. Per quest'ultima si distingue fra la competenza alla dichiarazione di fallimento e alla gestione dello stesso, per la quale restano le disposizioni ordinarie, e le altre controversie di ordine fallimentare o concorsuale, per le quali entra in gioco la nuova attribuzione di competenza.

Il nuovo organo giudicante è una sezione specializzata, che ha sede nel capoluogo del distretto della corte di appello e che, in relazione a uno o più materie assegnate alla sua competenza, decide in un unico grado, in tempi processuali ridotti: viene composta da magistrati di specifica professionalità, appositamente selezionati, ai quali dovranno essere assicurati formazione e aggiornamento mirati, pur se soggetti a rotazione. Il tutto "senza oneri aggiuntivi per il bilancio dello Stato né incrementi di dotazioni organiche" (articolo 11 comma 1 lettera c). Il d.d.l. prevede un tentativo preliminare di conciliazione, il cui insuccesso può essere preso in considerazione per la definizione delle spese, se provocato dall'atteggiamento di una o più delle parti, e tre distinte tipologie di procedimenti:

  • un procedimento contenzioso che decide della rimozione o della cessazione degli effetti degli atti negoziali già compiuti. E' trattato da un giudice monocratico, con riserva di collegialità, ed è simile a un procedimento cautelare, senza obbligo di successiva attivazione della causa nel merito: se tale attivazione non avviene, il provvedimento emesso ha effetti definitivi, ma gli stessi non equivalgono all'efficacia del giudicato;

  • un procedimento di tipo camerale, modellato sull'articolo 737 del codice di procedura civile;

  • un procedimento "sommario non cautelare, improntato a particolare celerità ma con il rispetto del principio del contraddittorio, che conduca alla emanazione di un provvedimento esecutivo anche se privo di efficacia di giudicato".

Una sezione specializzata è prevista anche presso la Corte di Cassazione. Il quadro riformatore, quanto alla giurisdizione, è completato dalla direttiva di un periodico monitoraggio relativo alla durata dei differenti procedimenti davanti alle sezioni specializzate, dalla previsione del possibile inserimento negli statuti societari di clausole compromissorie, anche in deroga agli articoli 806 e 808 del codice di procedura civile, dall'indicazione che il lavoro delle sezioni non sia gravato di arretrato.

E' opportuna qualche osservazione, come contributo all'approfondimento, che avverrà nel corso della discussione. E' facile prevedere che in Commissione vi sarà dialettica su quelli che taluno ha già definito i "tribunali dell'economia". Come sempre, quando esistono ragioni egualmente valide pro e contro, la scelta che si riterrà di operare avrà comunque delle controindicazioni. Se infatti non si dovesse condividere l'impostazione del d.d.l., si rafforzerebbero le critiche di chi reclama la soluzione da esso prospettata come la sola idonea a garantire una giustizia professionalmente attrezzata, rapida ed efficiente, adeguata alla velocità e alla competitività dei mercati: una giustizia che non può immaginarsi bene amministrata dall'attuale sistema dei tribunali, per l'ampiezza delle competenze e per la gravosità dei ruoli. Il rischio è che l'incapacità o la non volontà di operare scelte ardite, determinate, fra l'altro, da prevedibili e diffuse resistenze territoriali (soprattutto alla vigilia di una competizione elettorale nazionale) possa indurre il Parlamento, in questa o nella prossima Legislatura, anche sotto la spinta di suggestioni presenti in ambito comunitario, a optare per l'istituzione dell'ennesima Authority: col conseguente ennesimo passaggio della decisione di controversie che esigono la professionalità del giudice togato a una realtà paragiurisdizionale. La recente attribuzione all'Antitrust della competenza a decidere sulle liti in tema di pubblicità ingannevole e comparativa, avvenuta col decreto legislativo 25 febbraio 2000 n. 67, esclude che questa prospettiva sia remota.

Fra i "contro" della soluzione prospettata dal d.d.l. non vanno sottovalutati l'affievolimento di professionalità dei giudici che operano nei tribunali non distrettuali, la contrazione di lavoro che si determinerà sull'intero "indotto" degli studi professionali di avvocati e commercialisti al livello provinciale o subprovinciale, e un certo disagio nell'utenza. Se si riterrà, come spero, di disporre delle audizioni, sarà opportuno sentire sul punto il parere delle associazioni rappresentative dei professionisti interessati dalla riforma. Fra i "contro" deve pure includersi la concentrazione in pochi giudici di decisioni di rilievo importante per l'economia di una zona territorialmente estesa, spesso coincidente con i confini di una regione. Ciò determina un notevole grado di esposizione per gli stessi magistrati, che acquista rilievo particolare per la competenza sulle controversie fallimentari. Appare peraltro difficilmente conciliabile la direttiva della specifica professionalità con quella dell'adeguata rotazione, poiché la prima, in linea con la specializzazione su base distrettuale, tende alla permanenza nelle funzioni, mentre la seconda va nella direzione opposta. Allorché la delega precisa che la rotazione deve evitare "la dispersione delle competenze professionali acquisite", la sola alternativa appare essere, sempre che l'interessato sia disponibile (il trasferimento d'ufficio è di regola una sanzione disciplinare), il passaggio ad analoga sezione presente in altro distretto.

Se la Commissione condividerà l'impostazione del d.d.l., non dovrà trascurare infine la necessità che siano predisposti mezzi e personale adeguati per il funzionamento delle sezioni specializzate, e sarà chiamata a riflettere sull'inciso "senza oneri aggiuntivi" che, inserito in questa delega, richiama alla memoria quello contenuto nella delega relativa al giudice unico. Pur se nella relazione si legge che "" a seguito del reclutamento straordinario dei magistrati, e che le spese "possono essere soddisfatte con gli ordinari stanziamenti di bilancio", è appena il caso di osservare che gli "strumenti di formazione e aggiornamento professionale dei magistrati" che compongono le sezioni hanno dei costi; che tali strumenti non devono essere circoscritti ai magistrati, ma estesi, secondo i rispettivi ruoli, anche al personale di cancelleria che opera nelle sezioni (e anche tale indispensabile estensione non appare gratuita); che la celerità dei nuovi riti può essere seriamente pregiudicata dai ritardi nelle notifiche, quindi va previsto un rafforzamento degli organici degli ufficiali giudiziari presso i capoluoghi dei distretti; che i locali, e in genere le strutture materiali che finora sono stati adoperati nelle sedi circondariali non sono - come è ovvio - trasferibili nella sezione distrettuale, e quindi oneri aggiuntivi vanno messi in conto anche sotto questo profilo.

Infine, qualche rilievo sul rito. Se il procedimento cautelare, in virtù della facoltatività della successiva attivazione della causa nel merito e della definitività degli effetti, fa immaginare un intervento giudiziario completo ma definibile in tempi più che accettabili, l'inefficacia come giudicato del provvedimento desta qualche perplessità di compatibilità col sistema. Identico discorso vale quanto all'altro procedimento, quello definito "sommario non cautelare", per il cui esito vale l'identico limite. Meritevole di approfondimento è pure l'esclusione del grado di appello: la relazione al d.d.l. la giustifica per evitare "il rischio di un giudice dell'impugnazione meno competente, in termini di professionalità specifica, rispetto a quello che ha emesso il provvedimento impugnato". E' un rischio che si può agevolmente fronteggiare in astratto avendo qualche stima maggiore nei confronti della professionalità dei giudici di appello, e in concreto immaginando l'istituzione di sezioni specializzate di secondo grado. Non va trascurato che una innovazione così impegnativa si affianca a procedimenti estremamente veloci in primo grado, e per questo appare ancora meno giustificata.

Qualche perplessità desta pure la disposizione che consente di inserire clausole compromissorie negli statuti societari, in deroga agli articoli 806 e 808 del codice di procedura civile. C'è anzitutto un problema di coerenza intrinseca al d.d.l.: se si individuano nuovi procedimenti per rendere più celere ed efficace la definizione delle liti societarie, poi non sembra logico consigliare di derogare al nuovo assetto con vie di fuga particolarmente attraenti: ha il sapore di una sfiducia versi i nuovi istituti. C'è infine un problema di coerenza con un sistema che non consente l'arbitrato per liti che non possono formare oggetto di transazione. ……

 

Roma 26 luglio 2000

On. Alfredo Mantovano