ALFREDO
MANTOVANO SOTTOSEGRETARIO DI STATO MINISTERO DELL'INTERNO |
Interventi sulla stampa |
Articolo pubblicato su Avvenire (Sezione: Oggi Italia Pag. ) |
Giovedi 25 novembre 2004 |
Da Roma Luca Liverani
Per gli stranieri il carcere è solo una galera
Altro che funzione rieducativa. Per i detenuti stranieri in Italia il carcere è molto spesso una «discarica sociale»: la scarsa conoscenza della lingua, l'impossibilità di assoldare avvocati più motivati di quelli d'ufficio, l'assenza della famiglia riduce la detenzione a puro strumento repressivo, annullando anche quelle poche possibilità di preparazione al renserimento sociale: niente corsi di formazione, niente scuola, niente lavoro, niente attività ricreative. Meno che mai arresti domiciliari o permessi premio. E uno su quattro finisce per compiere atti di autolesionismo. È un quadro preoccupante di negazione dei diritti quelle che emerge dalla prima ricerca su "Le condizioni civili dei detenuti stranieri nelle carceri italiane", presentato ieri all'Angelicum, la Pontificia università San Tommaso D'Aquino, e realizzato dalla facoltà di Scienze sociali dello stesso ateneo in collaborazione con la Fondazione Cei Migrantes e l'Ispettorato generale dei cappellani delle carceri. Tra i relatori al convegno anche il vescovo Francesco Montenegro, presidente della commissione Cei per la carità e la salute, e Alfredo Mantovano, sottosegretario al ministero dell'Interno. A distribuire i questionari (in 14 lingue) sono stati i cappellani, con i volontari e i mediatori culturali, che hanno convinto i detenuti a rispondere. Sei i penitenziari scelti: San Vittore a Milano, Prato, l'Ucciardone a Palermo, le Vallette a Torino, Regina Coeli a Roma, Isili in provincia di Nuoro. Circa 600 le risposte, un terzo dei detenuti delle sei carceri. Un campione ampio, anche se statisticamente non valido, precisano i ricercatori. Gli stranieri in carcere - dati ufficiali al giugno 2004 - sono 17.783 (tra condannati e in attesa di giudizio) su un totale di 56.532 detenuti, quasi un terzo. Alberto Lo Presti, docente di sociologia all'Angelicum, è il curatore della ricerca. E spiega che «fra repressione e correzione il momento carcerario per il detenuto immigrato è soprattutto repressivo». Insomma: «Il carcere per gli stranieri sembra essere una sorta di "discarica sociale", dove cioè l'esclusione da sociale, pre-esistente alla condizione carceraria, si trasforma in giuridica». Gli immigrati in carcere spesso erano già degli emarginati: uno su tre non conosceva l'italiano, due su tre erano irregolari, uno su due non viveva in famiglia (il 30% con conoscenti occasionali, il 27% da soli, appena il 18% coi familiari). Pochi quelli che lavoravano: il 26%. In carcere il 40% è in attesa di giudizio, ma a differenza degli italiani che spesso possono contare su buoni avvocati, familiari e amici, attendono il processo in carcere: chi - come molti stranieri - è senza fissa dimora non può ambire agli arresti domiciliari. E le attività formative e ricreative? Vi partecipa solo il 26%, il 34% non fa nulla. E la rieducazione? Lo straniero viene «preso in carico dal gruppo dei pari»: peccato che i consigli dei connazionali nel 75% dei casi non coincidono con le norme del carcere. Non sorprende allora che il 25% afferma di avere compiuto atti di autolesionismo: per la mancanza di contatti con la famiglia, di un lavoro, di una detenzione più giusta.
|
vedi i precedenti interventi |