ALFREDO
MANTOVANO SOTTOSEGRETARIO DI STATO MINISTERO DELL'INTERNO |
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Articolo pubblicato su Avvenire (Sezione: Editoriali Pag. 2 ) |
Venerdì 26 luglio 2002 |
Luigi Ciotti
Lapide non solo di marmo per Rita Chi si ricorda di Rita? Temo non molti. In ogni caso troppo pochi per l’affettuosa e riconoscente memoria che una società sana e delle istituzioni attente dovrebbero riservare a chi, pur non direttamente, ha perso la vita a causa delle mafie e di quella strategia stragista che ha a lungo insanguinato l’Italia. Dieci anni sono passati da quel 19 luglio in cui Paolo Borsellino, assieme agli agenti di scorta Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Cusina, Claudio Traina ed Emanuela Loi sono stati uccisi da Cosa Nostra. Quello stesso giorno Rita, Rituzza come la chiamava Borsellino, scrisse sul suo diario: "Ora che è morto Borsellino, nessuno può capire che vuoto ha lasciato nella mia vita ….. Prima di combattere la mafia devi farti un auto-esame di coscienza e poi, dopo aver sconfitto la mafia dentro di te, puoi combattere la mafia che c’è nel giro dei tuoi amici, la mafia siamo noi e il nostro modo sbagliato di comportarci. Borsellino sei morto per ciò in cui credevi, ma io senza di te sono morta". Proprio la decisione di collaborare con la giustizia aveva portato Rita Atria ad una solitudine estrema e sofferta. Una scelta di grande responsabilità e coraggio, decisamente sorprendente per una ragazza così giovane: aveva solo diciott’anni quando, una settimana dopo la strage di via D’Amelio, decise di togliersi la vita. Una solitudine che le era cresciuta dentro, specie dopo la morte del padre, ucciso in una faida mafiosa, così come il fratello. Una solitudine appena temperata dal rapporto instaurato nel 1991 con Paolo Borsellino, in cui forse aveva trovato, oltre che il giudice, un riferimento educativo, una figura paterna. Ma Rita non è morta di solitudine. È morta di mafia. Anche lei come troppi in quella tremenda primavera-estate del 1992. È morta perché il suo diventare "testimone di giustizia" non è stato accettato e capito da chi ha trasformato anche i vincoli affettivi in legami mafiosi. Rita, pur appartenendo ad una famiglia coinvolta in collaborazione mafiosa, non è entrata in quella rete di violenza e di illegalità. Al contrario: ha seguito l’esempio della moglie di suo fratello – Piera Aiello – e si è opposta a quella mentalità scegliendo – con fiducia – la legalità, affidandosi a esponenti autorevoli e qualificati delle istituzioni, dello Stato. Una scelta che è suonata, per il contesto in cui Rita è cresciuta, come un affronto imperdonabile. Anche per questa ragione Rita è stata aggredita anche dopo la morte: frantumando la sua lapide sulla tomba ed oltraggiandola anche nel ricordo. Un messaggio eloquente per chi usa unicamente le parole della prevaricazione e dell’illegalità: chi diventa testimone di giustizia non deve esistere nemmeno da morto! Per questo motivo ricordare Rita a dieci anni dalla sua scomparsa assume, oltre al significato della vita e della speranza, anche il senso ed il valore della fiducia in una legalità che nessun potere criminale può negare o intimidire. Non possiamo abbandonare chi paga con la vita il coraggio di schierarsi dalla parte delle leggi e della giustizia. Non possiamo non aiutare chi entra in una guerra di mafia per il solo motivo del raccontare e testimoniare quanto ha visto o ascoltato. La nuova lapide per ricordare Rita non può essere solo di marmo. Deve essere costruita con tutti quegli strumenti – legislativi, amministrativi e sociali – necessari per accompagnare realmente (e con continuità) chi ha scelto di stare dalla parte dello Stato e per questo paga un prezzo altissimo. Se così avviene non solo Rita continua a vivere in noi, ma anche il suo coraggio ed il suo esempio si infondono in noi per chiedere a tutti e a ciascuno di diventare voce, parola e denuncia contro ogni potere criminale che nega diritto, giustizia e uguaglianza. Perché questo significa "ricordare" Rita: ri-scoprire che ognuno di noi è chiamato alla responsabilità impegnativa e liberante del farsi "testimone di giustizia" con tutta la pregnanza e la densità che l’espressione evoca e propone. Ci sono anniversari che usano le persone e stravolgono la storia ed altri che rinnovano la memoria, la gratitudine e l’impegno. Dipende da noi. Dalla nostra capacità di sconfiggere anche la mafia che è in noi, come diceva Rita: la mafia della passività e dell’indifferenza, la mafia della retorica e delle parole vuote. Questo decennale può essere una grande occasione e una forte testimonianza. Oppure la certificazione di una resa morale e culturale nei confronti delle logiche mafiose e delle convenzioni politiche. Dipende solo da noi. Da ognuno di noi.
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