ALFREDO
MANTOVANO SOTTOSEGRETARIO DI STATO MINISTERO DELL'INTERNO |
Interventi sulla stampa |
Articolo pubblicato su Corriere del Sud (Sezione: Cultura Pag. 13) |
15 - 30 Marzo 2005 |
Giuseppe Brienza
Liberare la pena
PRIMA PARTE Il sussidio pubblicato dalla Caritas italiana, Liberare la pena. Comunità cristiana e mondo del carcere (Editrice Dehoniana, Bologna 2004, pp. 96, euro 2.50), invita ad una riflessione sulla drammaticità dell'odierna situazione carceraria nazionale, andando finalmente al di là dei "soliti" ed inveterati problemi "materiali" delle carceri sensazionalisticamente riportati ad intervalli regolari dai nostri mass media. Giovanni Paolo II e l'indulto per i carcerati Don Vittorio Nozza, direttore della Caritas italiana nella sua Presentazione (pp. 5-7) alla pubblicazione, opportunamente richiama due recenti pronunciamenti di Giovanni Paolo II che hanno fatto molto dibattere circa l'eventualità di un "indulto" per i carcerati. Nel primo dei testi riportati, il Messaggio per il giubileo nelle carceri del 9 giugno 2000, il Papa parlando della punizione detentiva, richiamò l'attenzione sul fatto che «i dati che sono sotto gli occhi di tutti ci dicono che questa forma punitiva in genere riesce solo in parte a far fronte al fenomeno della delinquenza. Anzi, in vari casi, i problemi che crea sembrano maggiori di quelli che tenta di risolvere». Nel secondo insegnamento magisteriale, il discorso rivolto in occasione della Giornata mondiale della pace del 2002, Giovanni Paolo II esprimeva l'auspicio per cui «Nella misura in cui affermiamo un'etica e una cultura del perdono, si può anche sperare in una politica del perdono espressa in atteggiamenti sociali e in istituti giuridici nei quali la giustizia assuma un volto più umano». Queste parole del pontefice furono a suo tempo parzialmente strumentalizzate da chi, partendo da un'ideologia relativistica e permissivistica, pensava che liberare i detenuti fosse contemporaneamente un modo per ridare la libertà ad individui che, "deresponsabilizzati" a causa dell'emarginazione subita, non erano e non rimangono altro che "vittime della società", ed insieme una maniera per risolvere il problema materiale del sovraffollamento carcerario. I reclusi sono rimasti invece sempre "troppi", nonostante la "legge sull'indultino", fatta emanare dal governo di centro-destra, ne abbia "fatti uscire" circa 5.500. Se punire è "politicamente scorretto" non per questo è meno giusto Francamente pare che in alcuni passaggi del sussidio "Liberare la pena" permanga una certa lontana eco delle sopra citate ideologie "social-colpevoliste", figlie del '68. Ad esempio quando si contesta un ipotetico "pensiero prevalente", «che immagina che esista una società buona e una cattiva e che il nostro compito sia recuperare dalla cattiva alla buona le singole persone» oppure quando semplicisticamente si definisce il momento storico in cui viviamo come «caratterizzato da una percezione d'insicurezza generalizzata, che innesca una ricerca di fantasmi simbolici con i quali narcotizzare le paure, canalizzandole verso uomini "diversi", produttori del male, nuove streghe da bruciare per sentire il proprio quotidiano più protetto»(citazioni rispettivamente alle pp. 30 e 53-54). Come aveva intuito il filosofo Vittorio Mathieu,fin dai primi anni della società italiana "post-sessantottina", «tutta la nostra vita politica e sociale, oggi, vive di principi che può permettersi solo perché, per tacita intesa, non se ne traggono le conseguenze. Se qualcuno le trae, come fece ad esempio la generazione del '68, disturba; ma disturba per poco. Così la società può continuare ad agitare principi assurdi e contrastanti fra loro, reggendosi solo perché, prudentemente, si astiene dall'applicarli. La mia speranza è che, a lungo andare, la società anziché cercare di evitare le conseguenze, torni a cambiare i principi» (V. Mathieu, "Se punire è impopolare, non per questo è meno giusto", intervista a cura di Alver Metalli , in Il Sabato, n. 3/17 gennaio 1981, p. 14). Purtroppo, a distanza di decenni, la speranza di Mathieu non si è realizzata, e ciò soprattutto a causa di quelle stesse correnti pseudo-progressiste che, una volta abbandonato l'eskimo e giunte persino al governo del Paese nel 1996, hanno finito per manifestare un «terrore ideologico del carcere, poiché risentivano, anche inconsciamente, del dogma secondo il quale chi sbaglia è anzitutto vittima della società. Quando l'universo carcerario ha mostrato segnali di insofferenza, il centro-sinistra è riuscito solo a invocare, spesso senza avere nemmeno il coraggio di farlo esplicitamente, un provvedimento generalizzato di clemenza quale rimedio contro le tensioni e il sovraffollamento» (A. Mantovano, La Giustizia del curatore fallimentare, in Charta Minuta, n. 29/agosto-settembre 2000, p. 28). Non vorremmo che di queste idee fosse tributaria anche la Caritas italiana quando, nell'opuscolo in commento, esprime il suo rammarico per il restar diffusa nella gente la «radicata sensazione che il carcere sia lo strumento privilegiato per fare giustizia: riusciamo a misurare la gravità dell'azione commessa prevalentemente attraverso gli anni di carcere inflitti in sentenza. Analogamente, emerge la continua sensazione che le pene detentive non dovrebbero finire mai, quasi che la scarcerazione rappresentasse, in ogni caso, una sconfitta della giustizia» (p. 31). Abrogazione dell'ergastolo? Non pare che la situazione italiana giustifichi questo tipo di discorsi, e tanto meno quelli ad essi sempre connessi, finalizzati all'abolizione dell'ergastolo, altro cavallo di battaglia di un tipo di ideologia che avremmo sperato fosse superata dall'abbattimento del Muro di Berlino. Nell'aprile del 1998 la maggioranza di centro-sinistra approvò al Senato l'abrogazione della pena dell'ergastolo ma, come ha ricordato il magistrato ed attuale sottosegretario all'Interno Alfredo Mantovano, «alla Camera nessuno ha mai avuto il coraggio di iscrivere il relativo disegno di legge all'ordine del giorno E' ben noto che nessuno oggi, anche se ha commesso i delitti più efferati, resta in carcere per tutta la vita: l'insieme dei benefici dell'ordinamento penitenziario consente, se condannati all'ergastolo, di andare definitivamente in libertà dopo circa 21 anni, di fruire della semilibertà già dopo 16 anni di reclusione, e dei permessi premio dopo 10-11 anni. Sostituire l'ergastolo con una detenzione a tempo, sia pure per 30 anni nominali, vuol dire abbassare pericolosamente la soglia di quei benefici» (art. cit., p. 27). E non ci si venga a dire che, se mai effettivamente scontata, tanto vale eliminare la pena dell'ergastolo dal nostro ordinamento, perché d'accordo con il prof. Mathieu, (art. cit., pp. 13-14) non bisogna dimenticare «che il fatto di stabilire una pena, anche se inefficace, favorisce una coscienza morale più netta Il permissivismo è la degenerazione della libertà non c'è dubbio che vadano repressi e puniti nel modo più rigoroso quei comportamenti che ledono la libertà altrui o che addirittura, come quando distruggono la personalità, tolgono il fondamento di una possibile libertà altrui» . (continua...)
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