ALFREDO MANTOVANO
SOTTOSEGRETARIO DI STATO
MINISTERO DELL'INTERNO

 


Interventi sulla stampa

 

Articolo pubblicato su L'ECO DI BERGAMO
(Sezione:  ITALIA   Pag.  6    )
Sabato 4 ottobre 2003

Andrea Ferrari

 

Beghe nel partito di Fini Il problema è strategico

Nessuna distinzione tra quelle leggere e pesanti. Punito anche l’uso



Tutti i cosiddetti colonnelli di Alleanza nazionale ripetono in queste ore che ad avere problemi non è tanto il loro partito, quanto la coalizione nel suo insieme. Ripetono così come un sol uomo quanto ha già affermato Gianfranco Fini l'altro giorno, dopo l'elezione unitaria del capogruppo alla Camera, e cioè che il «malessere» della Casa delle Libertà non va sottovalutato, perché «sarebbe pericoloso». Come lui, parlano La Russa e Urso, Landoldi e Alemanno, Mantovano e Matteoli (ma non Storace). A parole, dunque, la varie correnti del partito mostrano di essere unite nel chiedere che la maggioranza si dia una vera registrata. E in effetti, quasi tutti - dentro An - aspettano che finisca il semestre europeo per ottenere il sospirato rimpasto di governo.

Il problema è che An sembra non sapere come affrontare il suo ruolo, che pure invoca, di secondo partito della coalizione: l'ostilità per Bossi non basta, né quella per Tremonti, e tantomeno bastano le richieste al premier di avere maggior voce in capitolo. Tutti chiedono a Fini di non «museizzarsi», come ha detto Altero Matteoli, gli ingiungono di non schiacciarsi su Berlusconi, insistono perché batta i pugni sul tavolo e invocano l'identità del partito, ma finiscono per procedere in ordine sparso in un malumore crescente ma ancora senza sbocchi (che Fini finora è sempre riuscito a ridimensionare). E così, le speranze comuni si appuntano sul mero rimpasto di governo, su nuovi e più importanti ministeri da cui gestire pezzi di politica importante, senza dover strappare coi denti a Maroni o a Tremonti questa o quella concessione.

Dal convegno di Fiuggi, indetto delle due correnti più critiche, quella di Alemanno, Storace, Urso e Matteoli, è venuta più che altro un'invocazione-minaccia a Fini che si è tradotta appena in un grido: «Vieni a soffrire con noi» e poco altro, e l'altro si traduce solo nel meccano correntizio, con due tronconi di partito che si uniscono per contare di più e delimitare il potere dei Gasparri e dei La Russa, accusati nemmeno velatamente di essere in realtà più berlusconiani che aennini. Tensioni che probabilmente nei giorni scorsi hanno preso la strada del dissenso segreto durante le votazioni, guarda caso, sulla legge tv firmata proprio da Gasparri («ma scritta a Palazzo Chigi» hanno malignato quelli di Fiuggi).

Bisogna comprendere tuttavia che An teme ormai di vedersi definitivamente sfuggire quel risultato che solo fino a qualche anno fa sembrava a portata di mano: surclassare Forza Italia e costruire la scalata di Fini alla leadership del centrodestra. Un obiettivo che si allontana non solo perché il partito azzurro, soprattutto dopo la «cura Scajola», si è dimostrato assai meno di cartapesta di quanto in An si pensasse; e poi perché i risultati elettorali di Alleanza nazionale non hanno conosciuto quella progressione che pure sembrava inscritta all'atto della sua nascita, dieci anni fa, sulle ceneri del vecchio Msi. Di più: adesso prende sempre più piede l'idea di un unico lista-partito di centrodestra da presentare alle elezioni europee (a contraltare di quello che sta tentando di costruire Prodi) in cui l'identità, le ambizioni e le nomenklature di An finirebbero per perdersi e annacquarsi, per di più in un calderone ancora di marca berlusconiana.

I più critici verso Fini lo accusano di aver accettato l'idea del listone solo per poter entrare nel Ppe e definitivamente legittimarsi in sede europea. E sospettano che Fini consideri il partito una specie di palla al piede per il suo cursus honorum verso la guida della coalizione allorchè Berlusconi siederà al Quirinale. Sospetti che non giovano a nessuno, né a Fini né ai suoi colonnelli, né alle fortune del partito. Il problema dunque, per An, è di tipo strategico, esattamente come da anni va dicendo (inascoltato) il professor Domenico Fisichella, il padre ideologico della svolta di Fiuggi, oggi relegato a presiedere il Senato quando Marcello Pera è in viaggio.


    

 

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