ALFREDO MANTOVANO
SOTTOSEGRETARIO DI STATO
MINISTERO DELL'INTERNO

 


Interventi sulla stampa

 

Articolo pubblicato su IL FOGLIO
(Sezione:ANNO X NUMERO 246 - PAG I IL FOGLIO QUOTIDIANO)
MARTEDÌ 18 OTTOBRE 2005

 

        

 

 Cinque rintocchi funebri sullo stato

Sono i proiettili che hanno ucciso a Locri Francesco Fortugno, il vicepresidente del Consiglio regionale. Per Minniti (Ds) la Calabria è ormai un “protettorato della ’ndrangheta”, il sottosegretario Mantovano (An) dice che “nelle procure calabresi non vuole andarci nessuno”. Cossiga, profeta inascoltato, è sempre più pessimista


 

Roma. Adesso in Calabria c’è chi dice che Francesco Fortugno non gestiva niente di appetibile. “Ma quale uomo di potere – racconta chi lo conosceva, pretendendo la garanzia dell’anonimato – il vicepresidente dell’assemblea regionale e dirigente della Margherita era soltanto un uomo d’immagine”. Un morto ammazzato dalla ’ndrangheta che non ha fatto sgarri alla ’ndrangheta. Ucciso a Locri dai colpi di un sicario incappucciato, che è andato a prenderselo dentro al seggio delle primarie, sfacciato e neanche troppo frettoloso. Sia chi governa oggi sia chi ha governato nella precedente giunta di centrodestra, quella di Chiaravalloti, ricorda che Fortugno non era certo conosciuto come uno che sbraitava contro la malavita. Limpido, per carità, ma abbastanza acquartierato. Insomma non il bersaglio tipo di una malavita calabra che si è fatta ricca e tracotante al punto di non avere più bisogno di minacciare recapitando pallottole per posta, come è successo di recente al governatore di centrosinistra Agazio Loiero. “Quella è ricerca di pubblicità facile concepita da piccole famiglie – dice un ex assessore calabrese – oggi le famiglie grandi, quando vogliono farsi sentire, le pallottole le esplodono direttamente”. Ma perché contro Fortugno? Forse perché – come ipotizzano fonti di Palazzo – nella Locride non si accede a cariche elettive di prestigio senza certi appoggi. O piuttosto non si può alloggiare a lungo, sotto il sole del potere, se certi appoggi li si rifiuta. Oltretutto, potente o meno che fosse, non va sottovalutato che l’eliminazione di un primario così noto e votato e famoso, realizzata con la strafottenza di un reality, è un messaggio niente male al ceto dirigente di una Regione che nella Sanità mette a bilancio il 70 per cento delle risorse a disposizione. Chissà se è vero, poi, che Fortugno proprio all’assessorato alla Sanità doveva finire, secondo una prima bozza di governo regionale accantonata in fretta e furia. E chissà quanti e quali pensieri avrà in questo momento il successore di Fortugno, Domenico Crea detto Mimmo, ex assessore all’Ambiente (Udc) nella giunta Chiaravalloti passato con la Margherita prima delle ultime elezioni regionali. Lui sì, per bocca di amici e detrattori, “uomo potentissimo” (soprattutto nella zona ionica), ma niente di rilevante dal punto di vista penale.

Chi di mafia e ’ndrangheta è esperto per ragioni investigative, sempre sotto il vincolo dell’anonimato, stabilisce differenze: “La mafia siciliana ha una strategia complessiva che porta i capi dei mandamenti a concordare tra loro, ad assumersi le responsabilità di un’azione clamorosa, di un omicidio eccellente o di una strage. Per uccidere un uomo dello Stato, in Calabria, basta il consenso della famiglia, della ’ndrina locale. La vita vale molto poco, in terra di Calabria”. Poi si azzarda la spiegazione: “Francesco Fortugno è stato ucciso a Locri e Locri è terra di nessuno. Le famiglie locali si sono fatte una guerra stupida che ha provocato le attenzioni dello Stato. Sono state così ‘punite’, nel senso che adesso non c’è una ‘locale’ riconosciuta a Locri e probabilmente il permesso di uccidere Fortugno non è stato chiesto a nessuno. Perché muore? La ’ndrangheta non lancia segnali, messaggi del tipo uccidine uno per educarne cento. E’ probabile che ci sia stato un ostacolo, un problema costituito da Fortugno su un fatto, un caso specifico. Lui era un ex democristiano classico, poi passato da Popolari e Margherita. Era benvoluto dagli avversari politici ed era considerato una persona perbene. Era medico ma faceva politica da tanti anni e si era occupato di sanità. Forse ha impedito qualche affare in questo settore”. Va da sé che i cinque proiettili contro Fortugno sono altrettanti rintocchi funerei per uno Stato che in Calabria arretra e si arrende con impotenza sinceramente bipartisan. E’ finita da tempo la vecchia stagione della ’ndrangheta provinciale e montanara dei sequestri, ma non bisogna resuscitare la filastrocca che il malaffare calabrese ingrassa mentre lo Stato è assente. Perché il presidio pubblico, politico, giudiziario e di pubblica sicurezza, quello c’è. Gli organici sono coperti, le forze impegnate sono superiori alla media nazionale, però sono rinunciatarie o male organizzate. Dice il sottosegretario all’Interno Alfredo Mantovano: “Le questioni da affrontare sono due. Punto primo: la qualità del personale impegnato nelle zone tradizionalmente interessate da fenomeni mafiosi”. La verità – ammette Mantovano – è che “nelle procure calabresi non vuole andarci nessuno”. Risultato: “A combattere la ’ndrangheta sono gli ultimi arrivati, i freschi vincitori del concorso pubblico penalizzati da un sistema d’incentivi per la permanenza nelle sedi disagiate che funziona poco”. Oppure ci sono i giudici calabresi, “e qui non voglio fare allusioni etnico-razziali però individuo qualcosa che in alcuni casi può non funzionare”. Secondo punto: “La mancata adeguatezza della legislazione”. I mafiosi calabresi fanno poca galera “perché gli istituti processuali non conoscono deroghe significative e, tra riti abbreviati e sconti di pena la Calabria sta diventando una terra benedetta per la malavita. Un mafioso non ha paura di finire in galera, ha paura se qualcuno lo minaccia di non farlo uscire più. Diversamente, qualche anno di carcere è un breve infortunio, come la rottura di un menisco per un calciatore”. Parte da qui il ragionamento di Nicola Gratteri, sostituto procuratore a Reggio Calabria. “Dallo sgretolamento inesorabile della legislazione antimafia avvenuto dal 1992 a oggi”. Però oggi è in questione l’unicità calabrese. “La ’ndrangheta – dice Gratteri – è la struttura mafiosa che meno ha subìto l’intervento repressivo dello Stato. Solo riti abbreviati e pene ridicole. Come negli anni Novanta, quando andava di moda la lotta alla mafia siciliana. E sottolineo ‘andava di moda’ perché c’è chi ha fatto carriera a forza di parlare di mafia, senza il coraggio di spiccare un mandato con un capo d’imputazione”. Mentre la Sicilia veniva “aggredita” dallo Stato, “la ’ndrangheta si rafforzava ovunque e stabiliva collegamenti internazionali”. Si sprovincializzava. “Però senza perdere quel suo tratto di orizzontalità che è anche la sua forza rispetto alla forma piramidale della mafia. Mi trovi un collaboratore di giustizia affiliato alla ’ndrangheta che abbia fatto carcerare 2-300 capiclan”.

Fortugno e i morti della sanità calabra “Con l’omicidio di Fortugno, la ’ndrangheta ha perduto ogni freno inibitore”, continua il sostituto procuratore Nicola Gratteri. Non può che essere così, quando “il livello d’impunità è garantito da un giro d’affari equivalente a una manovra finanziaria”. Milioni di euro che viaggiano lungo i canali del terziario, degli appalti edilizi, degli ospedali e del monopolio sul traffico di cocaina. “Milioni facilmente riciclati attraverso la grande distribuzione. In Calabria fare il commerciante onesto non conviene. Perché ricaricare un 20 per cento sui prodotti venduti, quando la malavita offre guadagni più grossi per mantenere bassi i prezzi e riciclare denaro con più facilità?”. A guardare poi la funzionalità delle strutture di prevenzione, Gratteri si lascia scappare che “parte dell’organico della Dia è riempita da consulenze inutili. Guardi che la situazione è terrificante, qui siamo ancora agli anni Settanta”. Conferma, drasticamente, il calabrese Marco Minniti, deputato dei Ds e coordinatore in Calabria del centrosinistra. “L’assassinio di Fortugno, in pieno pomeriggio, militarmente perfetto, sposta in basso gli equilibri che fanno della Calabria una Regione sospesa tra l’appartenenza italiana e il protettorato della ’ndrangheta. Si sa che la mafia non colpisce uomini politici se non si sente all’altezza della risposta repressiva dello Stato. Il messaggio della ’ndrangheta è chiarissimo: questo è territorio nostro, possiamo ammazzarvi dentro casa. Perché il seggio dove Fortugno è stato assassinato era nel Municipio, in pieno centro”. “Io – prosegue Minniti – ci vedo un segnale di dominio assoluto di cui potevamo accorgerci prima. Prima di scoprire che uno dei capi delle Farc colombiane viene dalla Calabria. E vedo due possibilità: considerare un costo sostenibile la consegna della Regione nelle mani dei suoi ricchissimi mafiosi, oppure dare una risposta del loro stesso livello, saturare militarmente la Calabria e farli pentire”. Per niente ottimista, Minniti: “Allo stato attuale, dietro l’illusione della democrazia dell’alternananza, qui non può cambiare nulla”. Per aver sostenuto cose simili, dalla vicepresidenza della commissione Antimafia o direttamente dalla piana di Gioia Tauro da cui proviene (Taurianova), Angela Napoli di An è costretta da tre anni a vivere sotto scorta. “E’ vero che Fortugno non era uomo di potere ma un politico di vertice. Intenzionale o meno, il messaggio della ’ndrangheta è rivolto anche a Roma, è un assalto alle istituzioni. Ed è soltanto il più visibile d’una serie di omicidi che riguardano il mondo della sanità calabrese. Due mesi fa sono riusciti ad ammazzare indisturbati un medico primario che lavorava vicino Reggio Calabria. Ammazzato perché non voleva cedere alcune proprietà nel piccolo comune montano di Canalo”.



 

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