ALFREDO MANTOVANO
SOTTOSEGRETARIO DI STATO
MINISTERO DELL'INTERNO

 


Interventi sulla stampa

 

Articolo pubblicato su IL FOGLIO
(Sezione:  Inserto      )
Giovedì 1 luglio 2004

 

SE IL TERRORISMO NON E’ D’AUTORE

 

 

 Quando una sigla non costituisce fatto notorio il gip cancella il reato




 

1. "Se oggi si discutesse di organizzazioni terroristiche tipo le Brigate Rosse e dell'omicidio di Aldo Moro, questo Giudice non avrebbe alcuna necessità di avere la prova che sono esistite le Brigate Rosse in Italia e che Aldo Moro sia stato assassinato, perché potrebbe utilizzare l'istituto del fatto notorio (…). L'organizzazione terroristica e l'omicidio predetti, infatti, appartengono alla comune coscienza del popolo italiano e nessuno potrebbe porli in dubbio. Ma Hassan Hattab? Il G.S.P.C. (Gruppo salafita per la predicazione e il combattimento)? Uno o più omicidi in Algeria? Il carattere più disciplinato del GSPC rispetto alle unità operanti sotto la sigla del G.I.A.? Il G.I.A.?" E' il passaggio centrale - il più significativo - dell'ordinanza dell'8 gennaio 2004, con la quale il dott. Umberto Antico, giudice per le indagini preliminari del tribunale di Napoli, ha rigettato le richieste del pubblico ministero di sottoporre a custodia cautelare in carcere una serie di soggetti indagati per terrorismo internazionale, in quanto indiziati di appartenere in Italia a una rete di sostegno logistico del Gruppo salafita per la predicazione e il combattimento (GSPC), collegato con Al Queda, finalizzato a compiere attentati in Algeria. Il p.m. aveva individuato i ruoli di ciascuno degli indagati, dagli organizzatori ai dirigenti ai semplici partecipi, e aveva anche indicato i comportamenti concreti, rivelativi dell'attività dell'associazione terroristica, dal reclutamento alla raccolta di finanziamenti, dalla falsificazione di documenti all'assistenza legale degli immigrati.

Che qualche elemento sostanziale contro gli indagati ci fosse è confermato dalla circostanza che il g.i.p. ha comunque disposto l'arresto di tre di loro per ricettazione di documenti falsi, ritenendo che si fosse realizzata pure la contraffazione degli stessi. Dunque, in quel procedimento era concretamente riscontrato uno dei rami di attività più intensi delle cellule terroristiche presenti in Europa: quello che consente ai terroristi di occultarsi sotto generalità diverse da quelle reali. Ma ciò che interessa di più nella vicenda non è tanto capire se nel caso in esame vi fossero o meno, dal punto di vista giudiziario, gli elementi di fatto registrati dall'organo di polizia che aveva svolto le indagini - nella specie, il ROS - e sottolineati dal p.m.: di questo si stanno interessando altri giudici, davanti ai quali il p.m. ha fatto appello. Interessa invece constatare che le valutazioni di carattere generale riportate all'inizio hanno fatto sì che il giudice abbia escluso l'esistenza di una associazione terroristica, e abbia negato che il GSPC sia una associazione terroristica; da questa esclusione è derivata l'esenzione di responsabilità per i presunti appartenenti a quell'associazione.

Appartiene alla conoscenza e all'approfondimento del singolo giudice, sulla base dei dati oggettivi a disposizione, capire se un tale è parte attiva di una cellula terroristica; chi non ha ruoli istituzionali in quel particolare procedimento può solo accendere un cero al santo preferito affinché l'accertamento sia il più possibile aderente alla realtà, per non mandare in carcere innocenti e per non lasciare in libertà dei potenziali assassini. Costituisce invece un dato culturale non esclusivo del giudice la consapevolezza dell'esistenza e delle caratteristiche attuali del terrorismo di matrice islamica. Il problema da porsi è il seguente: pur se questo dato non è esclusivo del patrimonio di conoscenza del giudice, può rimanere estraneo alla sua cultura? Cioè, a quell'insieme di parametri che concorrono a formare la sua decisione? Se la risposta fosse affermativa senza incertezze, le conseguenze sarebbero tragiche. Per restare al caso di Napoli, è accaduto che anni di indagini, di appostamenti, di intercettazioni, di confronti fra nomi ed episodi, siano stati (al momento) vanificati non perché ritenuti non veri, ma perché non si è considerato provato che un determinato gruppo - il GSPC - fosse qualificabile come terrorista. Addirittura ci si è posto il dubbio della esistenza e della natura del GIA (a Napoli! dove per la prima volta in Italia dieci anni fa sono iniziate le indagini sul terrorismo islamico, relative proprio al GIA); non è provato, e non costituisce nemmeno "fatto notorio". Questo non succede soltanto a Napoli. E' avvenuto di recente a Perugia, allorché i giudici del riesame hanno scarcerato tre dirigenti del Campo antimperialista e dei Comitati per la resistenza del popolo irakeno, in precedenza arrestati per aver ospitato, nascosto e finanziato terroristi turchi del Devrmci Halk Kurtulus Partisi-Cephesi (DHKP/C). Avviene in altre sedi giudiziarie.

2. Si ha la conferma che il problema sia anzitutto culturale allorché l'ordinanza del dott. Antico si è spinta alla ricerca del significato di termini come salafita, jihad, fondamentalismo… per giungere alla conclusione che la varietà di significati di ciascuna di queste parole impedisce di prenderle in considerazione negativamente per gli indagati che ne fanno uso. Quando, per es., in una intercettazione si sente evocare il jihad, secondo il gip di Napoli nulla esclude che si faccia riferimento alla lotta morale per migliorare sé stessi e per sottomettersi alla legge di Allah. Il che è vero in tesi: ma quando chi parla di jihad viene trovato in possesso di decine di passaporti falsificati e in altre intercettazioni conversa con chi a sua volta fa riferimento specifico a traffici di armi, sostenere quella tesi equivale a sposare un pregiudizio che non tollera prove contrarie. Il nocciolo della questione è però quello del brano riportato all'inizio: organizzazioni da tutti, anche per via giudiziaria, considerate terroristiche, non possono essere qualificate tali perché la loro conoscenza "non appartiene alla comune coscienza del popolo italiano", e quindi nemmeno a quella del giudice. Non è un problema di soluzione facile; chi si accontenta del mero rispetto della forma potrebbe osservare che la questione si risolverà quando la Corte di Cassazione si pronuncerà in via definitiva su questa, come su altre vicende che interessano realtà del terrorismo islamico: nei futuri procedimenti di merito, la produzione agli atti del giudizio di quelle decisioni consentirà di dare per presupposto ciò che oggi giudici come il gip di Napoli ritengono indimostrato. In passato è andata così, per esempio, per la "sacra corona unita": quando è intervenuta la prima sentenza della Cassazione che l'ha qualificata "associazione mafiosa" è bastato depositare nei giudizi di merito copia di questa decisione, e da quel momento in avanti non è stato più necessario dimostrare in ogni singolo processo che l'organizzazione esisteva e che aveva natura criminale e mafiosa.

Ma nel caso che qui interessa non è esattamente la stessa cosa: nella vicenda della "sacra corona" i giudici di merito avevano ricostruito i fatti che poi hanno condotto la Cassazione a confermare la mafiosità di quella organizzazione, e l'avevano già per proprio conto qualificata in questo modo. Per il terrorismo islamico più di un giudicante ha rinunciato e rinuncia addirittura all'esame del fatto costituito dall'esistenza di una o più associazioni terroristiche: e questo rende più difficile la qualificazione. Vi è poi, a fianco, un risvolto concreto al quale perfino il giurista, che, come gli altri, prende la metropolitana e fa la spesa al supermercato, non dovrebbe restare indifferente: mentre si attendono i tempi della Cassazione, probabili terroristi circolano per le strade, frequentano le metropolitane e passano fra i banchi dei supermercati; ciò preoccupa di per sé. Che però avvenga dopo che le forze di polizia hanno raccolto elementi a loro carico e un p.m. li ha sintetizzati in una richiesta di arresto, solo perché un giudice ritiene che l'associazione a cui quei soggetti appartengono non sia da considerare terroristica in base alla "comune coscienza del popolo italiano" tranquillizza ancora di meno.

3. Sia chiaro: non vi è nessun desiderio di "leggi speciali" o di diminuire le garanzie del processo. Ma ci sarà pure un punto di equilibrio fra la possibilità di lunghe detenzioni cautelari introdotta in altri Paesi occidentali per questi delitti, con deroghe significative ai sistemi di raccolta delle prove, e l'ignoranza degli elementi essenziali del quadro, in quanto non attingibili da "fatti notori", teorizzata dal gip di Napoli. L'esperienza italiana segnala fino a questo momento, a legislazione sostanzialmente invariata, un ottimo lavoro di prevenzione e di conoscenza della realtà del terrorismo islamico da parte dei nostri servizi di informazione e delle forze di polizia. Segnala al tempo stesso un punto debole costituito, non sempre e non da per tutto, da una risposta di organi giudicanti inadeguata non perché "garantista" (come se fosse "forcaiolo" un p.m. che espone in ordine e con rigore logico un insieme di elementi indizianti), ma perché non attrezzata a una minaccia criminale nuova e diversa rispetto al passato. Non è l'unica lacuna esistente nel nostro sistema: le questioni sono tante e riguardano, volendo restare al piano strettamente processuale, i rapporti con le autorità giudiziarie di altri Stati; la disomogeneità di norme, in base alla quale atti formalmente ineccepibili in alcuni ordinamenti sono inutilizzabili da noi; i tempi delle rogatorie internazionali troppo lunghi, di fronte alla necessità di interventi immediati. E però questi aspetti sono già oggetto di attenzione in sede europea e nei consessi internazionali: hanno, purtroppo, tempi indeterminati di definizione, dovrebbero essere tenuti in un conto superiore rispetto alle quote latte o all'identità della pizza, ma non sono comunque estranei all'agenda degli addetti ai lavori.

Il discorso sviluppato fino a questo momento viceversa segnala un problema che, anche in sede giudiziaria, non viene percepito come tale se non da una cerchia ristretta. La segnalazione del problema può favorire la sua considerazione; però non è sufficiente: si tratta di capire come uscirne. Per giungere a questo, è necessario comprenderlo nella sua effettiva configurazione: e constatare anzitutto che non riguarda la magistratura nel suo insieme, bensì una parte non marginale della magistratura giudicante. Le procure sono più vicine ai fatti di indagine e, come fa ben comprendere Stefano Dambruoso, fino a pochi mesi fa impegnato nelle più importanti indagini sul terrorismo islamico, nel suo recente libro Milano Bagdad, i pubblici ministeri vivono in simbiosi con la polizia giudiziaria, della quale condividono fatiche, ansie, successi e fallimenti. Questa maggiore adesione alla realtà manca ai giudicanti: non sempre è un male, in questo caso sì. Né giova farsi prendere dalla tentazione di invocare o di disporre accertamenti disciplinari verso i giudicanti che seguono questi ragionamenti: è un riflesso condizionato che non affronta in modo diretto il problema, che in ogni caso prescinde dai comportamenti che in tesi legittimano il richiamo alla deontologia.

4. Alla ricerca di ipotesi di soluzione, si può partire proprio dal brano riportato all'inizio: "Se oggi si discutesse di organizzazioni terroristiche tipo le Brigate Rosse e dell'omicidio di Aldo Moro, questo Giudice non avrebbe alcuna necessità di avere la prova che sono esistite le Brigate Rosse in Italia e che Aldo Moro sia stato assassinato, perché potrebbe utilizzare l'istituto del fatto notorio". Ma quando si discuteva, anche in sedi giudiziarie, di Brigate Rosse all'epoca dell'omicidio di Aldo Moro, o nel periodo immediatamente precedente, a quali conclusioni si perveniva? Non sempre ha costituito "fatto notorio" che quello delle BR fosse terrorismo e che fosse pure "rosso"; era altrettanto poco "notorio" che associazioni della sinistra estrema diverse dalle BR fossero ritenute terroriste: questa ambiguità di valutazione, non sempre involontaria, non si è limitata a un periodo di pochi mesi. Basta ricordare le critiche pesanti, per eccesso di zelo, che MD rivolse al lavoro di repressione della lotta armata mosse nei confronti di Giancarlo Caselli e di Guido Viola, pure aderenti alla medesima corrente. Basta ricordare la difesa, da parte della sinistra politica e di MD, dell'avv. Lazagna, incriminato da Caselli per contiguità al terrorismo brigatista: in quella circostanza un gruppo di magistrati convintamene democratici arrivò a riunirsi per valutare se il supporto probatorio a carico di Lazagna fosse sufficiente a giustificare la detenzione. Solo in seguito larga parte dei "magistrati democratici" riconobbe che Caselli aveva ragione, che le prove contro Lazagna c'erano, che le Brigate rosse non erano "sedicenti", e che erano "rosse" per davvero: anche se la presa di distanza dalla violenza diffusa - le molotov, per intenderci - fu più lunga rispetto a quella dal terrorismo. La consapevolezza fu piena e definitiva quando, col PCI inserito stabilmente nella maggioranza all'epoca della solidarietà nazionale, la magistratura nel suo insieme cominciò a pagare un tributo di sangue sempre più pesante per una scelta di contrasto senza incertezze. Anche allora, come oggi, vi furono disquisizioni terminologiche; non riguardavano l'estensione e il significato della parola jihad: riguardavano il modo di porsi di fronte alla lotta di classe e agli strumenti da adoperare per giungere alla vittoria del proletariato. C'è da chiedersi se oggi, in un contesto, anche interno alla magistratura, diverso per motivazioni e per spinte ideologiche da quello di 30 anni fa, è il caso di ripetere errori simili, salvo a riservarsi la "soddisfazione", fra 25 anni, di poter disporre di qualche "fatto notorio" in più.

5. Qualche passo in avanti sul piano della chiarezza normativa è stato fatto all'indomani dell'11 settembre. Nell'ottobre 2001 il governo ha presentato al Parlamento un decreto legge, prontamente convertito in legge, che, fra l'altro, ha introdotto il delitto di partecipazione o organizzazione di associazioni con finalità di terrorismo anche internazionale e ha consentito l'utilizzazione su questo versante di strumenti di indagine in precedenza non adoperabili. Ma evidentemente non è bastato a convincere una parte di coloro che sono chiamati ad applicare le norme che non esistono soltanto nuove disposizioni incriminatici e procedurali; vi è pure una sensibilità culturale e giuridica da affinare, in virtù della presenza di quelle norme, che a loro volta rispondono, sia pure in parte, all'esigenza di fornire risposte giudiziarie adeguate al nuovo volto del terrorismo. Non credo che su questo versante possa incidere quel coordinamento centrale delle indagini che viene sollecitato da più tempo, allorché si prospetta la costituzione di una Procura nazionale antiterrorismo, ovvero una estensione delle competenze della Procura nazionale antimafia, come ha suggerito svariate volte l'attuale Procuratore Vigna, trovando concorde il ministro Castelli; quel coordinamento, comunque venisse attuato (l'aggiunta di competenze alla DNA avrebbe il pregio di andare esente da oneri finanziari), sarebbe utilissimo, ma riguarderebbe la magistratura inquirente, e si tradurrebbe nello sforzo di eliminare le sovrapposizioni e le interferenze fra il lavoro di tutte le Procure ordinarie sparse sul territorio nazionale; non inciderebbe sul problema cui si è fatto cenno finora. Né quest'ultimo verrebbe superato dal riferimento, da parte del pubblico ministero, a black list dell'Unione europea o di organismi internazionali: se vale la premessa più volte richiamata, il giudicante esige o prove da produrre ogni volta per intero in ordine alla natura terroristica di una certa associazione (il che è concretamente impossibile) o un dato consolidato dal punto di vista della "comune coscienza del popolo italiano"; e la lista non ha queste caratteristiche.

Resta il piano della formazione e dell'aggiornamento professionale: per il quale, come tutti sanno, il CSM ha competenza piena ed esclusiva e la magistratura associata rivendica altrettanto piena ed esclusiva autonomia, al punto da criticare la riforma dell'ordinamento giudiziario, fra l'altro, per il fatto che intacca quella competenza. Può allora essere interessante constatare che, mentre già da qualche anno le forze di polizia promuovono per i propri ufficiali e funzionari corsi di aggiornamento sull'Islam, e sul terrorismo che ha quella matrice, nell'intero anno 2004 il CSM ha programmato un solo seminario sul tema, dal titolo Terrorismo e legislazione penale; si è svolto a Roma dal 29 al 31 marzo, e ha interessato circa cento partecipanti. Già questi dati illustrano il grado di coinvolgimento dell'incontro di studi: poco più di un paio di giorni per un gruppo limitatissimo di magistrati, solo una parte dei quali svolgeva funzioni giudicanti. Sui contenuti, il seminario si è occupato anche del terrorismo interno: tant'è che ha incluso un approfondimento in ordine alle tecniche che hanno portato alla disarticolazione della struttura delle BR, dopo l'arresto di Nadia Lioce. Una sezione è stata dedicata all'omicidio di Marta Russo e ai rilievi balistici effettuati per individuare la traiettoria dei proiettili al fine di risalire agli autori del delitto: che cosa c'entri questo col terrorismo, interno o internazionale, è tutto da scoprire. E' però probabile che il semplice porsi quest'interrogativo sia visto come una pericolosa lesione dell'autonomia e dell'indipendenza della magistratura. Sul terrorismo internazionale, a parte la segnalazione dei problemi di rogatorie e di validità delle prove cui prima si accennava, è stata fatta una lista solo verbale dei gruppi eversivi di matrice islamica, in modo approssimativo e senza nulla aggiungere o approfondire rispetto alle notizie che si ricavano dalla lettura continuativa degli articoli che un buon quotidiano dedica all'argomento. Nessun riferimento alle decisioni giudiziarie che sono state più volte citate finora e ai problemi che esse sollevano. Tutto ciò si commenta da sé e, fra l'altro, induce a non temporeggiare né a tergiversare nel condurre in porto la riforma dell'ordinamento giudiziario, anche nella parte relativa alle nuove competenze in materia di formazione dei giudici. Ma induce, prima ancora, ad approfondire la riflessione, e a coinvolgere nella riflessione il mondo forense nel suo insieme, e in particolare la magistratura giudicante.

Facendo tutti gli scongiuri, meglio un dibattito animato che essere costretti dalla forza drammatica dei fatti a repentini mutamenti giurisprudenziali. Quei fatti non sono "notori" solo per chi non intenda qualificarli come tali; ma, se si guarda al di là della propria scrivania, e magari oltre i confini del Golfo di Napoli, appaiono tragicamente incombenti.


Alfredo Mantovano

 

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