ALFREDO
MANTOVANO SOTTOSEGRETARIO DI STATO MINISTERO DELL'INTERNO |
Interventi sulla stampa |
Articolo pubblicato su IL FOGLIO (Sezione:AANNO X NUMERO 94 - PAG VI IL FOGLIO QUOTIDIANO -) |
GIOVEDÌ 21 APRILE 2005 |
Alfredo Mantovano
Riflessioni su un aborto evitato e sull’aborto “minorenne” di Milano
Sono trascorsi quasi vent’anni, ma il ricordo è nitido, come se fosse ieri. Facevo il pretore in un paese della provincia di Taranto; per l’esattezza, il pretore mandamentale. E’ una figura di magistrato scomparsa dal 1989, che per decenni ha rappresentato, soprattutto nei centri piccoli e periferici, la versione giudiziaria del curato di campagna: entro certi limiti, aveva competenza su tutto – diritto civile, azione penale, giudizio penale, controversie di lavoro – e a lui ci si rivolgeva per tutto, anche oltre i limiti di competenza. Tra le sue funzioni rientrava quella di giudice tutelare: in quanto tale chiamato, dalla legge che ha introdotto in Italia l’aborto “legale” – la n. 194/1978 - ad autorizzare la minorenne che intenda interrompere la gravidanza senza dirlo ai genitori o in contrasto con la loro volontà. Una mattina di un giorno di primavera si presenta da me una ragazza: per la verità, sembrava poco più di una bambina, dimostrava 12- 13 anni, ma la carta di identità diceva che ne aveva 16. Apre la porta del mio studio, senza essere accompagnata da nessuno e, restando in piedi, mi racconta con poche parole che vuole abortire, che non ha nessuna intenzione di informare i suoi e che un’amica le ha detto di andare dal giudice per avere l’autorizzazione. La legge non mi impediva, anzi mi imponeva, di sentire la gestante e di tenere conto della sua volontà e della ragioni alla base della sua decisione. Perciò le ho chiesto se aveva idea di che cosa fosse un intervento abortivo, e se ne fosse realmente consapevole e convinta. La sua risposta è stata immediata: “perché mi fai queste domande? la legge permette di abortire e io voglio abortire”. Il resto della storia interessa fino a un certo punto; siamo stati a chiacchierare per un po’ di tempo, e ne è valsa la pena, perché alla fine, parlando e ragionando, quella bambina se ne è andata senza autorizzazione; non perché io gliela abbia negata, ma perché non la voleva più, voleva ripensarci, e magari provare a discuterne con la mamma… Della storia interessano due dati: da un lato la drammatica solitudine di chi resta incinta senza volerlo, e non sa come venirne fuori; una solitudine che la legge accentua, se spinge alla fuga da quell’aiuto che può (non sempre e non sempre con effetti positivi) venire dalla famiglia di appartenenza, per andare dal giudice-burocrate; è veramente paradossale che la minore età che impedisce di mettere in banca i risparmi della “paghetta” senza la firma dei genitori è poi irrilevante per fare da sola una scelta che incide sulla propria salute e sulla vita propria e altrui! Dall’altro il dare per scontato il ricorso all’aborto come unica via d’uscita, il considerare l’aborto come un’aspirina e la gravidanza come un’influenza, un po’ più complicata, ma comunque sempre come un fastidio del quale liberarsi presto. Questa banalizzazione - “perché mi fai queste domande? la legge lo permette” - è la conseguenza dell’esistenza di una 194 che in oltre venticinque anni di vigore, al di là di ciò che si è detto al momento della sua approvazione, non ha mai realizzato una effettiva prevenzione, e, al di là di ciò che è scritto nel suo primo articolo, ha trasformato l’aborto in un mezzo di controllo delle nascite. Ma è proprio la vicenda delle minorenni la pietra di inciampo dell’ipocrisia. E’ la dimostrazione che con l’aborto libero e banale i problemi, più o meno gravi, e i disagi esistenziali vengono scaricati sulla presa a terra, altrettanto banale e semplice, della soppressione del concepito e della desolazione di chi lo ha avuto nella pancia. Quanto accaduto qualche giorno fa alla clinica Mangiagalli di Milano ne è la riprova. La diciassettenne di cui si è tanto parlato era al quinto mese di gravidanza. L’articolo 12 della legge 194 prevede l’autorizzazione del giudice tutelare se la gestante si trova nei primi 90 giorni dal concepimento; a partire dal quarto mese prescinde sia dall’assenso dei genitori sia dal provvedimento del giudice. E’ sufficiente che il medico “accerti – così dice la norma – l’urgenza dell’intervento a causa di un grave pericolo per la salute della minore”; è quello che è avvenuto nel caso specifico: la magistratura si è spogliata della decisione perché erano già decorsi i primi tre mesi di gravidanza. I medici hanno ritenuto l’urgenza e hanno effettuato l’aborto. E’ lecita qualche domanda?
Bilancio conclusivo di una norma (apparentemente) irreformabile: nessun aiuto effettivo alla ragazza diciassettenne, se non il conforto e l’affetto della madre, rimasta in ogni momento al suo fianco, pur se non ha condiviso la scelta di abortire e pur se è stata posta per legge nell’impossibilità di esercitare quel ruolo di genitore che invece ha per il libretto di depositi di sua figlia. Nessuna considerazione, probabilmente per la confusione in cui una giovane donna vive certi momenti, dell’aiuto fornito a distanza da associazioni e famiglie, che si erano offerte di tenere il bambino, qualunque fosse il suo stato di salute. Una gran fretta da parte dei medici abortisti, anche perché più il tempo passava più il feto "cresceva", e maggiore era il "grave rischio psicofisico" per la donna. Alla fine abbiamo però conferma della esatta nozione di “aborto terapeutico”, su cui si fonda l’intero impianto della legge 194: vuol dire, come spiega Claudia Navarini (nel sito Zenit del 17 aprile), spingere “una donna a liberarsi del suo bambino nella vana illusione di "stare psicologicamente meglio" e sopprimere un bimbo in utero, di quasi cinque mesi, forse viabile, solo perché presumibilmente malato”.
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