il manifesto
08 Giugno 2006
TELEVISIONI pagina 19

mattinale


Una tuta blu si prende la prima serata

Norma Rangeri

Né magistrati, nè poliziotti, ma una tuta blu protagonista di una fiction, A voce alta (Raiuno, lunedì e martedì), per raccontare una storia vera e importante, una storia di mafia, quella di Gioacchino Basile, operaio e sindacalista dei Cantieri navali di Palermo che denuncia le infiltrazioni mafiose e ne paga il prezzo.
La sceneggiatura, scritta con la collaborazione di due parlamentari (Alfredo Mantovano e Ottaviano del Turco), racconta come, a metà degli anni '80, un giovane dipendente dei Cantieri affronta il boss del quartiere Acquasanta, mettendo a repentaglio la propria vita e quella della famiglia, scontrandosi con la rassegnazione (di amici e parenti) che sconfina nella complicità con la criminalità organizzata.
Sembra un impresa impossibile, invece Basile (nella fiction interpretato da Ugo Dighero) va fino in fondo. E dalla prima scena, quando lo vediamo salire in una macchina del ministero dell'interno che lo porta via da Palermo, si capisce che ha pagato caro la sua battaglia («mi chiedo se la gente conosce la differenza tra un pentito di mafia e un testimone di giustizia»), costretto a lasciare per sempre la città e il lavoro.
Le lentezze della procura di Palermo, le minacce dei picciotti, il rapporto difficile con il quartiere dove è sempre vissuto, con il padre che non lo capisce, con il fratello che accetta l'ordine mafioso, il ricatto del posto di lavoro che mette sotto scacco il sindacato, l'economia di rapina che la mafia esercita sui Cantieri fino a diventarne la vera proprietaria. E quando tutto sembra perduto, la convocazione della Commissione Antimafia (ovvero Alfredo Mantovano, magistrato e allora membro dell'Antimafia) dà la svolta, mettendo con le spalle al muro la dirigenza dei Cantieri e organizzando per Basile il programma di protezione dei testimoni.
Con il passe-partout del flashback, il regista, Vincenzo Verdecchi, parte dal finale, brucia la sorpresa, procede per quadri giustapposti, necessari per una onesta ricostruzione, non sufficienti per dare ritmo e tensione al racconto che avanza a scatti, penalizzando le migliori intenzioni.
Il pubblico è rimasto freddo (un risicato venti per cento di share). Non ha giovato l'interpretazione sopra le righe con cui è disegnato il protagonista. L'operaio di Dighero, è tanto coraggioso quanto esagitato (urla per la strada, urla con il giornalista che si rifiuta di prestargli attenzione), disegnato con un'iconografia ottocentesca (il portapranzo di alluminio, il piazzale dei cantieri con gli operai sistemati come per un manifesto del Terzo Stato). Così come nella rocciosa moglie (la brava Lorenza Indovina), nonostante i guai, non si intravede un attimo di umano cedimento.
E chissà chi ha scritto quella battuta che dice il prete, accorso sulla strada dove l'amico mafioso dell'operaio, per averlo salvato dai sicari, si è preso una pallottola in petto («apri il tuo cuore alla verità di Dio e troverai il perdono»). Apri il tuo cuore? Ma se glielo hanno appena trapassato con una pistolettata! A volte è vero che la fede acceca.