ALFREDO MANTOVANO
SOTTOSEGRETARIO DI STATO
MINISTERO DELL'INTERNO

 


Interventi sulla stampa

 

Articolo pubblicato su il Mattino Venerdì 10 maggio 2002

GIGI DI FIORE

 

Cala il numero dei collaboratori
In Campania tregua tra i boss ma manca un’analisi aggiornata sull’evoluzione delle bande


Sono racchiuse in 217 pagine le ragioni dell’audizione tenuta dal procuratore capo Agostino Cordova a Palazzo San Macuto tre giorni fa. L’audizione delle nuove polemiche, dinanzi la Commissione parlamentare antimafia. In quella corposa relazione, doveva esserci la «rappresentazione aggiornata del panorama del crimine organizzato del distretto di corte d’appello di Napoli». Il vero Sos, insomma, su quella «camorra che si è sostituita allo Stato», come ripete da sempre Cordova. Una piovra pervasiva e suadente, che renderebbero - sempre secondo l’ormai noto pensiero del procuratore - inadeguati organici, mezzi e organizzazioni delle strutture giudiziarie napoletane.

Eppure, a ben leggerle quelle 217 cartelle, non si riesce a superare una sensazione di già visto. Se è pur vero che i dati si riferiscono al periodo tra il luglio del 2000 al dicembre dello scorso anno, non sfugge agli osservatori l’impressione di rileggere atti giudiziari, noti e datati, nonché relazioni approvate dalla Commissione antimafia della precedente legislatura. A cominciare dai clan. Il procuratore ne elenca, suddivisi per otto aree geografiche, un totale di 149 per l’intero distretto. Nella sola città di Napoli, divisa in tre aree, il numero è di 59. Ma, a scorrere i nomi, non esistono novità. Sembra che gli scenari criminali, a partire dal terremoto giudiziario e dalle clamorose rivelazioni dei grossi pentiti di camorra (primi fra tutti Pasquale Galasso, Carmine Alfieri, Umberto Ammaturo) del ’93-’94, si siano fermati. A Forcella, ad esempio, nonostante tutta la famiglia sia in carcere, viene ancora indicato come dominante il clan dei Giuliano. A Secondigliano, si cita ancora l’«alleanza di Secondigliano», nonostante che recenti indagini di polizia giudiziaria indichino scenari in evoluzione e rimescolamenti di equilibri, con la ricomparsa di gruppi come quello di Misso e altri della Sanità.

Ma se la relazione si riaggancia a quella precedente del 28 giugno 2000, non si riesce ad ottenere aggiornamenti che vadano oltre gli inizi di quegli anni. Le inchieste da cui vengono tratte le informazioni, risalgono infatti ad almeno due anni fa ed i fatti di riferimento sono datati almeno due anni prima. Un esempio? Nel citare le collusioni recenti tra clan e politica, si parla dell’inchiesta su Pompei e Santa Maria La Carità legate al clan Cesarano. Vicende di due anni fa almeno. Sul contrabbando, poi, sembra di rivedere elementi tratti dall’innovativa relazione Mantovano dell’Antimafia gestione Lumia. Una relazione debitrice delle ponderose inchieste della Procura di Napoli e di quelle di Bari e Lecce, certo, ma che, come nel gioco dei rimandi continui, sembra fare da base all’ultimo documento di Cordova. Basti vedere alla citazione, ancora, della «Zeta trans», o degli scenari montenegrini, su cui la stessa Procura, attraverso recentissimi interrogatori a Gerardo Cuomo, sta dando riletture. Un parallelo con la mafia attuale sembra intuibile in una mezza pagina della relazione, laddove si legge, a proposito del «progressivo calo dei gravi fatti di sangue»: «Il dato positivo, frutto anche di una più efficace e penetrante attività investigativa, è però in buona parte dovuto a una diminuita conflittualità tra i vari clan che in alcune zone hanno scelto la strada dell’accordo, in altre hanno riconosciuto l’egemonia dei più forti, programmando le attività illecite e gli ambiti di operatività di ciascuno».

Insomma, così come in Sicilia, anche in Campania sarebbe in atto una «pax camorristica», con clan che agli omicidi hanno sostituito le intese, il silenzio, gli affari in accordo. Ma, dietro questo concetto, purtroppo, non c’è una citazione di riscontri investigativi. Solo il dato del calo degli omicidi (55 nel Napoletano, 13 nel Casertano per l’intero anno scorso). Ma poi, quando si parla degli affari illeciti, l’analisi ammette che i clan si sono rifugiati in attività vecchie: estorsioni e usura. Tramontata l’era degli appalti e dei boss che pensavano in grande, gruppi e gruppuscoli vanno nel facile, in accordo tra loro. Ma, nonostante, l’apparente stasi negli scenari e nei clan, così come appare dalla «rappresentazione» del procuratore, i procedimenti della Dda partenopea (che annovera 23 sostituti) sono stati numerosi: 290 nel 2000 con 1557 indagati e 243 l’anno successivo con 1201 indagati. C’è una flessione, con un dato che fa riflettere: diminuiscono in maniera netta i collaboratori di giustizia, che Cordova definisce «irrinunciabili». Appena 19 proposte di programma di protezione nello scorso anno (5 sono testimoni). Nel ’96 erano state ben 50. Ed ammette lo stesso procuratore: «Attualmente si assiste per lo più a delazioni di soggetti che all’interno delle consorterie svolgono ruoli secondari, se non addirittura marginali». Insomma, poco o nulla si sa dal di dentro sulla generazione dei ventenni del crimine organizzato, sugli aspiranti capi. Che non sia forse questa la vera ragione di ricostruzioni che appaiono acquisite da tempo? Nulla è cambiato in cinque anni? Tutto è rimasto immobile, come sembra ritenere Cordova, che ama spesso ripetere passi della famosa relazione Saredo dell’800? A sentire il procuratore pare di sì. Con una sola spiegazione, sul mancato consolidamento dei risultati ottenuti dalle grosse inchieste del ’94/’95: «Non fu tempestivamente posto rimedio proprio per le innegabili difficoltà degli apparati repressivi dello Stato».


 

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