ALFREDO MANTOVANO
SOTTOSEGRETARIO DI STATO
MINISTERO DELL'INTERNO

 


Interventi sulla stampa

 

Articolo pubblicato su IL MATTINO
(Sezione:     Pag.    )
Giovedì 12 Settembre 2002





Rompere il muro d’omertà, ma senza subire conseguenze personali


 

Leggo, sul «Mattino», una intervista del procuratore Vigna che, chiamato a esprimere una opinione sul problema della omertà nella città di Napoli, propone l’arresto di coloro che, vittime di una (o di un tentativo di) estorsione, non abbiano, poi, denunciato gli estorsori. Cosa vogliono di più - dice Vigna - i cittadini da uno Stato che, per indurli a denunciare i crimini, ha previsto forme di risarcimento del danno, in favore dei denuncianti, nonché adeguate forme di protezione e tutela per i testimoni? Cosa aspettano, dunque, conclude Vigna, i cittadini a rompere questa sorta di vassallaggio che li lega ai clan? Ora, non che io voglia, in qualche modo, dire è giusto il comportamento di coloro che omettono di denunciare crimini, ci mancherebbe. Tuttavia, proprio non riesco a capire come Vigna possa condannare quei cittadini che, in contesti come quello di Napoli, Palermo ecc., si rifiutano - o, per meglio dire, non hanno la forza e il coraggio - di denunciare gli appartenenti a clan camorristici o mafiosi: il procuratore antimafia dovrebbe capire, infatti, che, laddove consapevole dell’esistenza dello stesso, la vittima dell’estorsione - vittima che, nel contesto di riferimento, ha una famiglia, degli affetti, un lavoro, magari dei figli che frequentano la scuola e, a loro volta, coltivano affetti, interessi e via dicendo - ravvisa, non di rado, nell’assoggettamento a un programma di tutela dei testimoni, non una adeguata soluzione, bensì una insidiosissima minaccia al proprio stile di vita; attesa la sostanziale brutale recisione col passato che tale forma di tutela comporta.
Cosa vogliono, dunque, di più i cittadini da questo Stato? La risposta a Vigna è presto data: vogliono avere la possibilità - il diritto - di poter denunciare, se non serenamente, quantomeno con una certa «tranquillità» gli estorsori; tranquillità coincidente, per l’appunto, con la consapevolezza che la denuncia non comporterà una sostanziale, e pressoché irreversibile, rivoluzione del loro stile di vita, con gravi ripercussioni sulla famiglia, sugli affetti, sul lavoro. Vogliono, in definitiva, poter denunciare e non dover fuggire: a dover fuggire, eventualmente, deve essere il criminale e non la sua vittima. Peraltro, la circostanza che, una volta compiuta una estorsione o altro crimine, un delinquente - finito nelle maglie della giustizia - possa rivelare, magari a scopi collaborativi, il nominativo di una sua vittima (silente per le ragioni predette) e, dunque, consentire la persecuzione della medesima, per omessa denuncia, mi pare inscrivibile nella logica, squisitamente partenopea, del «cornuto e mazziato»...
Alfredo Imparato - NAPOLI


Parto dalla conclusione della lettera, perché le cose stanno proprio così: un collaboratore di giustizia, per essere credibile, deve fornire particolari e circostanze dettagliati nei suoi racconti. Se indica nomi e cognomi di vittime di estorsioni da lui compiute (anche mai denunciate), diventa più credibile agli occhi degli investigatori. È così. Dura lex, sed lex. Ed è cosa nota quanto possa diventare difficile la vita di un testimone di mafia o camorra, che ha assistito o è stato vittima di un reato. Un celebre libro dell’attuale sottosegretario Alfredo Mantovano denunciò i limiti della legge sulla protezione dei testimoni. Persecutori e vittime spesso si confondono, perché la nostra cultura diffusa giustifica l’omertà. Piccola (quante volte, a scuola, i bimbi guardano male un coetaneo che indica alla maestra l’autore di una scorrettezza) e grande come nel caso delle vittime della camorra. Un questione di cultura che fa diventare «infame» chi accusa. Una questione etica che diventa giuridica. Nessuno, per legge, può regalare coraggio. Non esistono strumenti coercitivi che possano obbligare un imprenditore a mettere a repentaglio il suo futuro lavorativo su un territorio, se riceve richieste dal racket. E allora ha ragione il lettore, così come ripete anche il procuratore Cordova: dopo le sanzioni, la repressione, c’è bisogno di bonifiche sociali, interventi culturali, presenza sul territorio dello Stato in tutte le sue forme. Ma sono interventi a lunga durata. E allora, per il momento, ognuno deve rispondere alla propria coscienza di cittadino ed al proprio senso etico. Formule giuridiche risolutive non ne vedo.
(Gigi Di Fiore)


vedi i precedenti interventi