L.D.D.
Tangentopoli, dieci anni dopo/Rompe il silenzio uno dei magistrati protagonisti del periodo di Mani pulite
Ghitti: pool malato di esibizionismo
Le accuse del gip ai colleghi di Milano: «Erano in cerca del consenso popolare»
ROMA - Il pool "mani pulite"? «E’ andato troppo dietro al consenso popolare e ha finito per cedere all’esibizionismo». E’ solo uno degli inquietanti giudizi che Italo Ghitti, giudice delle indagini preliminari a Milano negli anni caldi di tangentopoli (luglio 1991 - luglio ’94), dà sul ciclone giudiziario, che dieci anni fa sconvolse il quadro politico italiano, in un’intervista a Tv 7, il settimanale di approfondimento del Tg 1, che andrà in onda questa sera su Raiuno.
Nell’intervista il giudice, dopo cinque anni di silenzio, prende le distanze dalle recenti manifestazioni di protesta della magistratura e parla del suo ruolo nella vicenda di “mani pulite". Ghitti sottolinea i meriti del “pool" per aver «portato alla luce i fatti di corruzione», ma non si sottrae a rimarcarne anche i “demeriti". Riferendosi ad esempio alle indagini che vedevano coinvolti gli uomini dell’ex Pci, parla di errori nel sistema di accertamento della verità. E alla domanda su quanti ordini di custodia cautelare firmò, sottolinea come si fosse opposto a «80 -90 richieste dei pubblici ministeri».
Sul famoso lancio delle monetine a Craxi davanti all'hotel Raphael di Roma, Ghitti va giù perentorio: «Si è trattato di una delle peggiori manifestazioni di odio di massa. Craxi fino a poco tempo prima era osannato e circondato da nani e ballerine. Credo che quell’episodio, in quel momento storico fosse quasi esclusivamente la manifestazione d’invidia di coloro che non avevano potuto fare ciò che Craxi aveva fatto».
Perchè invidia? «La logica sottesa nella corruzione di quegli anni - spiega il giudice - non era una logica propria solo dei partiti politici o degli imprenditori. Era la logica di perseguire il proprio interesse particolare con il minimo sforzo. Questo era semplicemente un costume degli italiani».
Poi torna a giudicare i suoi colleghi e critica «il magistrato-gladiatore che vuole vincere a tutti i costi nell’arena e che ha finito per incidere sulla serenità dei processi. L’indipendenza del magistrato - aggiunge - non è un privilegio del magistrato stesso ma un diritto del cittadino. Primo dovere del giudice è essere e apparire indipendente. Secondo dovere è quello di conoscere, capire, valutare, giudicare, secondo i parametri normativi, i fatti e non i fenomeni sociali. La lotta ai singoli fenomeni sociali non è compito del giudice».
Ghitti prende quindi le distanze dalle recenti manifestazioni di protesta della magistratura , soprattutto in riferimento a quelle delle “toghe nere" durante le varie inaugurazioni dell’anno giudiziario. «Tutto ciò che è scenografico - dice - non mi appartiene. La scelta della norma non compete all’Associazione magistrati ma al Parlamento».
Ghitti critica poi con durezza la figura attuale del Pubblico ministero: «Ho constatato un dato: l’incapacità del Pm a fare indagini. Delegando costantemente gli interrogatori dei testimoni e degli imputati, sfugge al pubblico ministero la conoscenza del processo e il magistrato diventa dipendente da un organo di polizia. Per troppi anni si è andati appresso ai pentiti senza coltivare il settore delle indagini e dei riscontri».
E abbandonò il pool proprio quando «mi resi conto che non riponevo più fiducia nella correttezza di alcuni pubblici ministeri», riferendosi ad una fuga di notizie dal Palazzo di giustizia di Milano.
Anche il sottosegretario all’Interno, Alfredo Mantovano, è intervenuto sul tema corruzione e “mani pulite".
«Dieci anni fa la corruzione c'era, era diffusa, e con mani pulite è emersa, sia pure in parte e con mille limiti. Oggi la corruzione c'è, è diffusa, ed emerge solo episodicamente». Secondo Mantovano «l'uso della giurisdizione per finalità politiche non iniziò nel 1992, ma venne teorizzato all'incirca trent'anni prima» e in parte del corpo giudiziario maturò la «convinzione che il compito della magistratura sia non solo quello di sanzionare specifiche condotte illecite di singoli esponenti politici, bensì quello di esercitare una forma di controllo sulla politica nel suo insieme».
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