ALFREDO MANTOVANO
SOTTOSEGRETARIO DI STATO
MINISTERO DELL'INTERNO

 


Interventi sulla stampa

 

Articolo pubblicato su PANORAMA
(Sezione:  ATTUALITA'      Pag.     )
Lunedì 28 Giugno 2004

di Bianca Stancanelli


 Parlo, vivo blindato, ma non lascio la mia casa


 

Ora che la legge distingue fra testimoni e «pentiti», il numero di quelli che accettano di accusare boss e picciotti è raddoppiato. E, fatto insolito, molti decidono di non fuggire.

Gli uomini del Servizio centrale di protezione bussarono alla sua porta una sera di gennaio: «Siamo venuti a prendervi. La trappola per i suoi estorsori è pronta a scattare. Avverta la famiglia. Dovete fuggire subito». Mario Caniglia, imprenditore agricolo, esitò solo un attimo: «E perché dovremmo andarcene? Siamo persone perbene. Dovremmo lasciare la Sicilia ai mafiosi?». Era il 1999. Per Caniglia, 57 anni, siciliano di Scordia, un paesone agricolo della provincia di Catania, famoso per le arance, oppresso da una mafia avida e feroce, cominciava la vita blindata. Vita da testimone di giustizia. Il primo a rifiutarsi di lasciare la terra dove aveva denunciato e fatto condannare un'intera cosca che voleva costringerlo a pagare il pizzo. Il primo ma, oggi, non più il solo.

In Campania e in Calabria altri due testimoni hanno scelto di non andarsene. Anche a patto di vivere sotto continua sorveglianza. Come Caniglia che, alle 5 del mattino, quando scende dalla sua casa, un grande appartamento situato sopra il capannone che è il cuore della sua azienda, trova ad attenderlo due carabinieri. «Vegliano su di me pure quando dormo» dice. «La protezione del testimone sul luogo di origine è per lo Stato la più costosa, ma anche la più significativa» sostiene Alfredo Mantovano, di An, sottosegretario all'Interno, presidente della commissione sui programmi di protezione. «È il modo migliore per convincere la gente che mafia, camorra, 'ndrangheta non possono costringere le persone oneste alla fuga».

Per i testimoni di giustizia è l'inizio di una possibile nuova stagione. A favorirla, una legge del febbraio 2001 che ha distinto una volta per tutte la figura del testimone da quella del collaboratore di giustizia, il «pentito», garantendole una protezione autonoma, separata. Riconosce Mantovano: «Nel passato ci sono state ambiguità, confusione e, per alcuni testimoni, condizioni di vero e proprio abbandono. Con la nuova legge tutto questo è finito. La prova è nei fatti: in due anni e mezzo, dal 2001 al maggio 2004, il numero di nuovi testimoni è più che raddoppiato. E sono aumentati coloro che, avendo concluso la testimonianza, concordano con lo Stato un'uscita dal programma di protezione e si rifanno una vita».

Da una pattuglia di vecchi testimoni, però, arrivano bordate contro il Viminale. Riuniti in un'associazione toscana, annunciano un libro bianco, rimproverano al governo di non aver varato i decreti d'attuazione della legge del 2001, invitano addirittura a disertare ogni alleanza con la giustizia. Un appello che rischia di apparire, insieme, desolante e superfluo. Perché i 73 testimoni di oggi continuano a restare una pattuglia di coraggiosi. Un confronto: i pentiti collaboratori di giustizia sono 1.130.

«Eppure, adesso denunciare conviene» garantisce Caniglia. «Un tempo i testimoni venivano spremuti e buttati via. Ora ci sono le associazioni antiracket e uno Stato che non ti lascia solo». Pesano altre diserzioni. «Nel 1999, quando mi presentai al processo contro i miei estorsori, Scordia si spaccò. Per la maggioranza ero "cornuto, sbirro e carabiniere", il massimo dell'infamia». Cinque anni dopo Caniglia incontra gli studenti nelle scuole del Catanese e di tutta Italia, lavora come un matto e ha perfino raddoppiato l'attività, tanto da decidere di ampliare il suo capannone. E per la prima volta i suoi compaesani vanno a chiedergli lavoro. «Io non sono una vittima della mafia: sono un vincente. E chi paga il pizzo è uno schiavo. Questo dico ai ragazzi nelle scuole, che hanno una voglia matta di cambiare. E io, contadino con la quinta elementare, gli dico che pensavo che i mafiosi fossero Superman. Poi li ho conosciuti: erano dei poveracci. È la nostra paura che li rende forti. Per questo ho deciso di non andarmene».

C'è chi non ha potuto restare. Come Innocenzo Lo Sicco, 55 anni, un imprenditore edile palermitano che si è ricostruito una vita e un'identità nuove, lontano dalla Sicilia. Nel gennaio 1997, dopo aver subito per anni i soprusi di Cosa nostra, denunciò la cosca dei Graviano, i dittatori mafiosi di Brancaccio. Seguirono 27 arresti, i processi, le condanne. E, nel 1999, la fuga da Palermo. «Un sabato, a Fiumicino, venni consegnato a tre uomini del Servizio centrale di protezione. Come un pacco. Neanche mi salutarono: pensavano che fossi un pentito. Il giorno stesso, a Palermo, tolsero ogni protezione alla mia famiglia. Feci l'inferno. Autorizzarono mia moglie e i miei figli a venire via con me. Ci sistemarono a Roma, in periferia. Mia figlia prese la scabbia». Mesi di pena, di rabbia. «Poi, quando fu chiaro che ero un testimone, tutto cambiò. Ho inaugurato una nuova attività, un anno fa ho concordato l'uscita dalla protezione, ho avuto una somma per ricominciare».

A Palermo gli appartamenti costruiti da Lo Sicco restano sfitti, nessuno li compra. «Ho lì cantieri, attrezzature abbandonate. E le case che dovetti dare ai mafiosi, il prezzo dell'estorsione, non mi vengono restituite: dal 1997 va avanti un processo civile e non finisce mai. Provo un'amarezza incredibile come cittadino: sono dovuto andare via, gli amici sono spariti, tutti. Ma sono grato allo Stato, che mi ha consentito di rifarmi un'altra vita». Ammette Tano Grasso, un simbolo della rivolta contro il racket, oggi consulente antiusura del sindaco di Roma: «La storia di Lo Sicco è una vittoria di Pirro: ha fatto condannare i Graviano, ma è dovuto fuggire. Il futuro dei testimoni è restare lì, nel loro territorio. Ma per far questo non ci vuole la legge: ci vuole il contesto. A Capo d'Orlando, nel Messinese, tutti noi commercianti abbiamo denunciato il pizzo e siamo rimasti lì. Se chi si ribella è un'eccezione, tutto diventa più difficile».

 

POCHE GOCCE NEL MARE


In aumento le vittime di cosche e racket che aiutano la magistratura, ma ancora non sono sufficienti

Numero testimoni di giustizia assistiti
2002: 64 con 185 familiari

2003: 65 con 181 familiari

2004: 73 con 203 familiari

Numero di nuove persone entrate nel programma di protezione
21 dal luglio 1998 al settembre 2001
44 dall'ottobre 2001 al maggio 2004

Testimoni usciti dal programma di protezione
38 dal luglio 1998 al settembre 2001
44 dall'ottobre 2001 al maggio 2004

Fonte: ministero dell'Interno, dati aggiornati al 24 maggio 2004


    

 

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