(d.m.)
L'INTERVISTA Il sottosegretario agli Interni responsabile del programma testimoni e collaboratori di giustizia
Mantovano: lo Stato rispetta i patti ma non è la lotteria di Capodanno
ROMA - Onorevole Alfredo Mantovano, testimoniare oggi contro la criminalità è un salto nel buio?
«No, non lo è più», spiega il sottosegretario agli Interni, presidente della Commissione del programma testimoni e collaboratori di giustizia. «La legge varata nel marzo del 2001 ha finalmente messo ordine in un settore fondamentale. I risultati, in meno di un anno, sono concreti: venti casi sono stati definiti con soddisfazione degli stessi testimoni. Altri sono in via di soluzione. C'è stata un'inversione di tendenza».
Perché solo ora?
«Nel 1991 e soprattutto nel 1992, con l'emergenza dettata dalle stragi di Cosa nostra, c'era molta confusione tra i ruoli di collaboratore e testimone di giustizia. Il cosiddetto pentito punta ad un premio. Il testimone vuole solo essere leso il meno possibile dal suo apporto alla giustizia».
Esigenze che loo Stato, soprattutto nei confronti dei testimoni,
non sembra soddisfare. Anzi, si sentono traditi.
«La legge adesso esiste. Mancano i regolamenti di attuazione. Ma noi la applichiamo ugualmente».
Molti testimoni sostengono il contrario.
«Non voglio scendere nei particolari dei singoli casi. Ci sono ragioni e colpe. I rapporti iniziali sono stati difficili, con alcuni si sono interrotti, con altri si è arrivati a soluzioni positive».
Qualche esempio?
«Le fornirò dei dati. L'anno scorso i nuovi testimoni ammessi al programma erano 10, quest'anno 19. Le audizioni, alle quali loro stessi partecipano, sono state 29. C'è maggiore fiducia e c'è la volontà da parte dello Stato di affrontare i probIemi».
Ma ci sono decine di denunce e di querele. I rapporti si sono fortemente deteriorati.
«La legge garantisce al testimone lo stesso tenore di vita che aveva in precedenza. Abbiamo scelto
un criterio di valutazione oggettivo con una convenzione con l'Agenzia per le Entrate. Si valutano le professioni esercitate fino al momento della testimonianza, si calcolano gli indici di rivalutazione per gli anni trascorsi sotto protezione e si quantifica un indennizzo che viene poi corrisposto. Abbiamo anche valutato lo stress subito per una sceita difficile ma coraggiosa. E per evitare contestazioni, ci siamo rivolti aIl'Inps per quantificare i danni anche di tipo psicologico».
Qualcuno chiedeva di restare nel luogo di origine. Una dimostrazione di grande coraggio che lo Stato dovrebbe favorire.
«Noi la favoriamo. Ci sono due imprenditori che hanno fatto questa scelta. Abbiamo utilizzato dei fondi europei destinati a programmni di sicurezza per il Mezzogiorno. Ora hanno ripreso la loro attività».
Perché non avviene anche per gli altri?
«Perché il programma di protezione esige anche dei comportamenti specifici da parte dei testimoni. Non si può pretendere più di quello che si ha come diritto. Ci vuole più equilibrio».
La loro vita è stata stravolta.
«Esiste una legge e va applicata. Con tutte le comprensioni umane e psicologiche che i singoli casi propongono. Per questo disponiamo quasi sempre la loro audizione. Il nostro obiettivo è portare questa gente ad una vita normale. Ma con la loro collaborazione, non il loro contrasto. Non possiamo essere la lotteria di Capodanno».
Ma un patto va rispettato.
«E noi lo rispettiamo. C'è il caso di un imprenditore che ha accettato il nostro aiuto. Si è rimesso a lavorare nello stesso settore di prima».
Come pensa di ricucire i contrasti con decine di testimoni?
«Con le denunce e i ricorsi non si può ricucire un rapporto di fiducia. L'obiettivo è mantenere il patto. Ma un patto si fa in due e tutti e due devono onorario».
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