Sospendere Schenghen? Chiudere le frontiere? Istituire un’agenzia, o addirittura un ministero antiterrorismo? Dalle esplosioni di Londra a oggi vi è stato un rifiorire di proposte e di discussioni sulle misure da adottare per rendere più efficaci la prevenzione e il contrasto alla minaccia terroristica islamica, senza che però siano ancora seguite decisioni concrete. Le forze di polizia e i servizi continuano il loro lavoro di prevenzione e, ove necessario, di repressione, ma dalla politica ci si attende qualcosa di più, che superi la semplice esercitazione dialettica. Un dato è certo: nessuna delle misure ipotizzate o ipotizzabili – e neanche la loro somma - è in grado di scongiurare per intero il rischio di un attentato in Italia. Ma la ricognizione equilibrata e obiettiva degli strumenti di contrasto fa emergere delle lacune che, se riconosciute, vanno colmate: circoscrivere il pericolo non consente di firmare una dichiarazione di esclusione dello stesso. Permette però di compiere qualche passo in avanti; il che non guasta.
Do per note e per condivise le proposte avanzate dal ministro Pisanu nel discorso tenuto alla Camera martedì scorso, sulle quali stanno lavorando i tecnici dei ministeri della Giustizia e dell’Interno. Limito la riflessione agli strumenti operativi, e non alle pur necessarie considerazioni di ordine generale, che riguardano la correttezza dei rapporti da parte delle comunità musulmane presenti in Italia, centri culturali e moschee inclusi. Ci sono questioni, a mio avviso, non essenziali, sulle quali si concentra l’attenzione e il dibattito; una di queste riguarda la sospensione del trattato di Schenghen. Nessuna preclusione di principio a trattarne e ad approfondirla. L’importante è capire a che cosa serve: in Italia la sospensione fu disposta per qualche giorno nel luglio 2001, in occasione del G8 di Genova; l’afflusso di decine di migliaia di esponenti delle aree dell’antagonismo imponeva di adoperare filtri più stretti per la loro identificazione, anche al fine di risalire ai loro precedenti, e quindi di bloccarne l’ingresso. La minaccia terroristica ha le medesime caratteristiche? Premesso che il Regno Unito non ha mai aderito a Schenghen, il profilo degli attentatori di Londra è noto: cittadini inglesi che, in tempi più o meno recenti, hanno ricevuto indottrinamento e formazione all’ombra di moschee. Parlare di Schenghen potrebbe essere l’occasione per affrontare il tema del controllo delle frontiere, soprattutto di quelle europee, e per capire quale è la fonte prevalente della clandestinità: si scoprirebbe così che non è più la via del mare, bensì quella dei permessi per turismo utilizzati per restare in modo tendenzialmente definitivo, e comunque oltre la loro scadenza (tre mesi); ma questo ha a che fare col terrorismo in modo realmente marginale.
Ci sono invece questioni essenziali, che vengono messe in disparte, se non ignorate. Provo a indicare, fra queste, quelle che appaiono prioritarie:
1. Sollecitare il sostegno finanziario dell’Europa, e comunque investire in sicurezza. Fondi comunitari per la sicurezza esistono per le zone svantaggiate o a rischio criminalità: perché non prevedere interventi sostanziosi contro il terrorismo, da indirizzare alle forze di polizia e ai servizi dei singoli Stati, magari a fronte di progetti concreti, proprio come accade per i Pon sicurezza? Se oggi l’Ue è “unione” soprattutto sui versanti monetario e finanziario, e se la collaborazione fra polizie è l’esito di rapporti bilaterali più che di una politica comune, è inutile stracciarsi le vesti e perdere tempo: dall’Europa, non riuscendo a fare altro, ci si attende che quanto meno ponga a disposizione le risorse… E comunque, Europa o non Europa, la lotta al terrorismo si fa con gli euro: gli straordinari costano, come le attrezzature per i controlli e per le intercettazioni; le informazioni costano: la loro quantità e qualità è direttamente proporzionale a quanto si ritiene di investire per essi. Pensare di combattere questa minaccia a risorse invariate equivale a nutrire pericolose illusioni.
2. Completare nei tempi più rapidi la riforma dei servizi. Non si comprende perché la legge che la prevede si sia fermata, pur avendo incontrato nelle linee generali l’assenso di larga parte della maggioranza e della opposizione, oltre che degli addetti ai lavori. La chiarezza sulle garanzie funzionali e l’unificazione dei due servizi oggi operanti fornirebbe maggiore tranquillità ai singoli operatori, realizzerebbe economie di gestione e un razionale uso delle risorse umane e materiali.
3. Istituire il coordinamento delle indagini giudiziarie, unitamente a sezioni di giudici specializzati. Le riserve che ancora oggi taluni oppongono a questa scelta non convincono: non si tratta di aumentare l’ingerenza dell’autorità giudiziaria nel lavoro delle forze di polizia. Si tratta di evitare conflitti, sovrapposizioni o ritardi nel lavoro delle procure; si dimentica con troppa facilità che nelle più recenti indagini sul terrorismo brigatista l’assenza di una struttura di coordinamento ha portato più uffici inquirenti, in contrasto sulle competenze, a ricorrere alla Corte di Cassazione: vogliamo fare il bis con le indagini sul terrorismo islamico? Né si tratta di conferire superpoteri, ma di razionalizzare quelli già esistenti; capita sempre più spesso che il coordinamento delle indagini si svolga fra magistrati di diversi Stati, per la dimensione sopranazionale che ha assunto il fenomeno: può continuare a lungo che altre nazioni si presentino a tali vertici con un unico interlocutore, legittimato a esprimere la posizione del paese che rappresenta, e dall’Italia compaiano più pubblici ministeri, magari in disaccordo fra loro? Si decida se istituire un ufficio autonomo o se estendere le competenze della procura nazionale e delle procure distrettuali antimafia, con l’organizzazione di sezioni apposite e distinte: ma lo si faccia presto. Per procedere con la medesima celerità alla costituzione di sezioni specializzate, che siano in grado di conoscere non soltanto le norme, ma anche la realtà fattuale sulla quale quelle vanno applicate. Se oggi un giudice di un processo di mafia mostrasse di non conoscere la differenza fra Cosa nostra e la camorra, si griderebbe – e con ragione - allo scandalo; accade qualcosa del genere in sentenze su presunti terroristi islamici, con improvvide distinzioni fra terroristi e guerriglieri e con l’esclusione della qualifica di terroristi a gruppi che sono inseriti in tutte le black list, e vi è chi ritiene inutile, se non pericoloso, intervenire.
4. Introdurre nel processo penale deroghe mirate per i giudizi di terrorismo. Come fra la sospensione di Schenghen e la esclusione di qualsiasi problema di controllo delle frontiere può essere individuata una posizione di equilibrio e di buon senso, allo stesso modo ci sarà pure una via intermedia fra Guantanamo e i provvedimenti della dott.ssa Forleo. E come all’indomani delle stragi di Capaci e di via D’Amelio nel processo penale furono introdotte misure ad hoc per contrastare la mafia (con risultati importanti), alla stessa maniera oggi, senza attendere attentati, non si può immaginare di pervenire alla condanna di pericolosi terroristi senza adattare alcuni istituti per i quali le garanzie sembrano più un esercizio formalistico che una esigenza reale.
Di tutto questo si parla da tempo in Italia. Si può anche ritenere che non serva a nulla: l’importante è affermarlo con chiarezza. Avendo però una consapevolezza: all’indomani dell’11 settembre in tanti hanno affermato che “nulla sarebbe stato più come prima”; se si è convinti che questa espressione non debba avere un valore esclusivamente retorico, la sua traduzione in qualcosa di concreto ha risvolti anche sul piano normativo. Come per la botte piena e la moglie ubriaca, non si può avere un codice pieno di formalismi inutili, e il terrorista in carcere. Vi è disponibilità a discutere anche di questo all’interno della maggioranza?