ALFREDO
MANTOVANO SOTTOSEGRETARIO DI STATO MINISTERO DELL'INTERNO |
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Articolo pubblicato su CORRIERE DELLA SERA (Sezione: Prima Pagina Pag. 6) |
Martedì 14 giugno 2005 |
di FRANCESCO VERDERAMI LA RESA DEI CONTI
Gianfranco isolato: quanti trasformisti
ROMA - «E’ stato il trionfo del trasformismo». Ripercorrendo la storia dello scontro sulla procreazione assistita, è come se Gianfranco Fini avesse voluto dire che il referendum è stato usato per manipolare la politica e non l’embrione, che nel Palazzo i quattro quesiti sono serviti al gioco dei quattro cantoni, dove ogni leader ha occupato uno spazio. Per questo l’esito non poteva che essere fallimentare. Sarà pur vero quanto sostiene il ministro degli Esteri, ma le urne lo consegnano più debole ed esposto nella coalizione e nel partito, dove parte dei colonnelli e del gruppo dirigente lo definisce ormai «il leader della destra ma non più il leader di An». È il segno di una crisi senza precedenti, dovuta a un’assenza di strategia che al capo della destra manca da quando Silvio Berlusconi gli ha reso inutilizzabile quella precedente. A scombinare i piani è stato proprio il Cavaliere con l’idea del partito unico, ma soprattutto con l’offensiva del dialogo verso Pier Ferdinando Casini. A quel punto, di fatto, si è spezzato l’asse che il vicepremier aveva con il presidente della Camera, e non è un mistero ciò che sussurrano alcuni dirigenti di An, e cioè che «l’intesa tra i due non è più la stessa», che «il legame si è allentato». Il rischio è che Fini possa diventare marginale nel riassetto dei poteri dentro la Cdl, e che non essendo più un potenziale successore di Berlusconi a Palazzo Chigi, perda la capacità di attrazione dentro e fuori il partito. Alla vigilia dei referendum, quando gli chiedevano se avesse idea delle conseguenze politiche che avrebbe provocato la sua scelta, Fini replicava: «E quali sarebbero queste conseguenze? Spiegatemelo». Nessuna a breve termine, in effetti, perché, sebbene abbia sferzato Francesco Rutelli, il vicepremier ha ragione nel prevedere che l’assetto dei due poli non muterà fino al 2006. Ma dopo, senza Berlusconi, è tutto da vedere. Perciò, nel frattempo, si dovrà dotare di un progetto. E dovrà farlo in fretta, in vista dell’Assemblea nazionale di An ai primi di luglio. Perché adesso c’è una complicazione in più: la rivolta del suo gruppo dirigente. Il punto non è se riuscirà a contrastare Gianni Alemanno, se il ministro per le Politiche agricole darà seguito alle sue dimissioni da vicepresidente di An lanciando la sfida per la successione nel 2006 o puntando a un’improbabile secessione. Tutti sanno che oggi Fini non ha alternative, e che tentare il parricidio alla vigilia del voto sarebbe votarsi al suicidio. Tutti lo sanno, a partire da Fini, che ha avvisato lo stato maggiore di non volersi dimettere, di esser pronto al «confronto», cioè allo scontro. È tale la distanza dai colonnelli, che dopo aver saputo della lettera con cui Alemanno lasciava, non si è premurato di chiamarlo per capirne le ragioni. Lo ha fatto interpellare da Donato La Morte, capo della sua segreteria dai tempi dell’Msi e oggi uno dei pochi di cui Fini si fida. Raccontano che il leader della Destra sociale sia andato su tutte le furie per l’onta subita, e che d’altronde ciò che pensa del leader, dal leader è ricambiato: «Nel partito ormai - sostiene il ministro degli Esteri - si è raggiunto il livello di guardia». Il sistema correntizio che formalmente ha smantellato con l’assenso dei capi- corrente, in realtà è rimasto in vita, «e lui - sussurra un maggiorente - si muove a disagio tra ingrati e ruffiani, tra chi gli deve la carriera e chi lo liscia per farla». Ma un conflitto come ai vecchi tempi, quando tutto mutava perché tutto si ricomponesse, non è più pensabile. «Non è pensabile - spiegava ieri Ignazio La Russa a un alleato - che Gianfranco decida in futuro di cambiare un ministro nel cuore della notte senza aver consultato la direzione del partito, come ha fatto con Maurizio Gasparri. Eh no. d’ora in poi, se vuole andare avanti, servirà la collegialità». E dietro il concetto di «collegialità» emerge chiaramente l’idea di mettere Fini «sotto tutela», di trasformare «il capo dalle mani libere in un monarca costituzionale». Può il vice premier accettare il patto che gli vorrà proporre l’area di Destra protagonista? Pensa realisticamente di risolvere la vertenza affidando il ruolo di coordinatore ad Altero Matteoli? A Fini serve un nuovo disegno strategico, e serve subito, perché nel frattempo i colonnelli del partito si stanno autonomizzando. Il ministro degli Esteri sa del rapporto tra Alemanno e i centristi, ed è evidente il nesso tra Gasparri e l’area berlusconiana della coalizione, in vista della federazione nella Cdl tra i partiti del Polo. Se questo processo - come sembra - dovesse andare avanti, Fini non potrebbe accodarsi. Ma per opporsi deve proporre un percorso alternativo. Il leader di An - dopo gli strappi sul voto agli immigrati e dopo la visita in Israele - pensa sia possibile costruire in Italia «una destra moderna», ma che ciò «comporta costi e sacrifici». Intanto però la destra ribolle come una tonnara, persino Alfredo Mantovano - che prima dei tre sì e un no di Fini era un fedelissimo del vicepremier - ha lasciato l’esecutivo: «Un conto è la proposta per il voto agli immigrati. Un conto è il viaggio in Israele. Altra cosa disancorare il partito dalla sua area politica e culturale di riferimento». Il premier, preoccupato, è sceso in campo in prima persona invitando a non politicizzare il risultato referendario. Ma siccome è chiaro che nel risiko politico il referendum è soltanto un pretesto, la situazione «può diventare ingovernabile. E noi - ha spiegato Berlusconi ad alcuni dirigenti forzisti - dobbiamo sostenere Fini, anche perché non possiamo permetterci di dare spazio al gioco di Alemanno». L’appoggio del Cavaliere, per quanto generoso, ha un prezzo: è il via libera di Fini al progetto federativo della Cdl. Certo, l’idea appare rassicurante nei messaggi che il capo del centrodestra ha inviato al suo alleato: «Non penso affatto a un partito neo-centrista di stampo cattolico. Non lo voglio io e non lo pensa nemmeno il Vaticano. E comunque, partiamo con la Federazione, perché alle elezioni penso sia meglio andare con più liste. Al partito unico ci penseremo dopo il voto». Già, ma quale sarebbe il ruolo di Fini? Per trovarlo dovrà dotarsi di una strategia.
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